giovedì 22 ottobre 2009

MARCO, L’ARTE DEL TUTOR

Lo scorso mese, in azienda, abbiamo salutato Marco, un collega che dopo 40 anni di lavoro è andato in pensione. Per tale occasione, è stata organizzata una festa per salutarlo.
Da quando lavoro in questa multinazionale ne ho visti di colleghi che hanno lasciato l’azienda, o perché hanno cambiato lavoro o perché sono andati in pensione. Tra tutti, Marco, è stato uno di quelli a cui mi sono più legato e con quale è stato un piacere lavorare assieme.
Lo conosco bene da circa un anno e la mia stima nei suoi confronti è cresciuta giorno dopo giorno.
Ognuno, se pensa all’ambiente in cui lavora e ai colleghi con cui collabora, riconosce di avere alcuni rapporti privilegiati.
Marco rientrava tra quei colleghi con cui non ho mai condiviso nulla in particolare se non l’appartenenza alla stessa dell’azienda. Anzi, la storia che mi lega a lui è un po’ paradossale, visto come è nata, tanto che nell’ultimo periodo, ogni volta che vedevo il collega passare dal mio ufficio, mi scoprivo a sorridere. Quando sono arrivato in questa azienda alcuni colleghi mi hanno fatto di Marco un profilo che si è dimostrato ben lontano da quella che è effettivamente la personalità di quest’uomo.
Non avendo avuto fino allo scorso anno alcuna relazione professionale con il collega, ho mantenuto con lui un buon rapporto di lavoro, velato però da un forte pregiudizio inculcato dalla visione miope (e tendenziosa!) di altri colleghi.
Poi, per ragioni legate alla mia attività ho cominciato ad interagire con Marco, ed bastato molto poco perché il castello fatto di convinzioni errate crollasse.
Quando ci penso sorrido come uno stupido, perché capisco che la realtà ha superato di gran lunga qualunque ipotesi….in questo caso errata!
Frequentando il collega ho capito chiaramente cosa è un tutor, per usare un termine inglese, un maestro, per usare un termine pedagogico, o senza scandalo, un padre, nel senso di colui che introduce alla realtà….in questo caso professionale.
E io che sono padre di tre figli, comincio a capire bene la responsabilità che ho nei confronti dei miei piccoli.
La grande esperienza lavorativa, associata a una disponibilità umana fuori dal comune ha fatto si che molti colleghi stimassero Marco, e pertanto il confronto con lui fosse stimolante e costruttivo, oltre che divertente.
Nella società di oggi, a mio avviso, la figura della guida scarseggia, perché emerge sempre più l’individualità a dispetto della collettività, dove la visione “a corto raggio” della realtà fa si che si pensi all’oggi e se ci sarà un domani si vedrà. Nel mondo lavorativo, l’individualismo, salvo rare eccezioni, è spesso portato all’eccesso. La conoscenza diventa un fatto privato, non da condividere, e quello che io so lo tengo stretto, perché qualcun altro lo può apprendere e usare a suo vantaggio. Mi vengono in mente molti esempi vissuti direttamente, altri conosciuti per altre vie.
Piccolo o grande che sia l’orticello va curato, mantenuto, ma soprattutto protetto da intrusioni, quasi a rischio che la destra non sappia cosa fa la sinistra. Pertanto nelle aziende, sempre più spesso, la trasmissione dell’esperienza e delle conoscenze avviene attraverso il freddo sistema degli archivi elettronici e lo studio di case history raccolti in file di word.
E questo, secondo me, a lungo termine si dimostrerà un danno, perché limitare la memoria storica a un database o un dvd è come guidare per 10 anni un simulatore anziché una automobile da corsa.
E qualcuno ha mai vinto una competizione guidando un simulatore?
Ne segue, a mio avviso, un rallentamento dell’accelerazione delle aziende, della loro crescita, del loro sviluppo. L’apprendimento delle persone, è invece, la chiave di volta del successo delle aziende che non puntano solo sui prodotti.
Jean Marie Descarpentries, manager del gruppo Carnaud-Metal Box, sosteneva che in azienda si apprende in tre modi diversi: prima di tutto attraverso i capi, poi mediante le proprie esperienze e infine costituendo una rete di interlocutori di qualità. Il primo modo è fondamentale perché funge da apripista.
“Quando hai la fortuna di avere buoni capi, bisogna fare come la spugna: assorbire tutto. Ma un capo può, per incompetenza, uccidere la passione degli individui, mentre il suo ruolo sarebbe di risvegliarla” (J.M. Descarpentries).
Allargando un po’ il quadro, ritengo che un buon capo, oggi, dovrebbe capire l’enorme risorsa che sono le persone di esperienza e metterle a disposizione dei più giovani.
Naturalmente quando parlo di tutor, e prendo come esempio Marco, parlo di uno che istruisce agendo nella ordinarietà del quotidiano. Non mi riferisco a uno che insegna da dietro la cattedra di un training centre.
Perché il modo migliore, per un discepolo, di apprendere è l’imitazione e l’insegnamento più efficace, per un maestro, è mostrare.
Anzi di più, condizione migliore perché un discepolo possa imparare da un maestro è che quest’ultimo accompagni l’alunno nel suo percorso di apprendimento, e accompagnare implica più di un semplice ascoltare e suggerire. Impone una relazione, è un percorso in comune, un viaggio attraverso la quotidianità. E questo, secondo me, le aziende dovrebbero favorirlo, perché è un atteggiamento umano e professionalmente efficace.
In questo compito di saper far sapere, a mio avviso, Marco, è stato un esempio di maestro da cui imparare.
Sicuramente questo mio collega, come altri in passato nella mia azienda, uscirà dalla porta per entrare dalla finestra, magari come consulente per un anno. Se ciò avvenisse, per chi ha finora perduto l’occasione, potrebbe essere una opportunità da non lasciarsi sfuggire.
Grazie, Marco.


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