Lo scorso mese, in azienda, abbiamo salutato Marco, un collega che dopo 40 anni di lavoro è andato in pensione. Per tale occasione, è stata organizzata una festa per salutarlo.
Da quando lavoro in questa multinazionale ne ho visti di colleghi che hanno lasciato l’azienda, o perché hanno cambiato lavoro o perché sono andati in pensione. Tra tutti, Marco, è stato uno di quelli a cui mi sono più legato e con quale è stato un piacere lavorare assieme.
Lo conosco bene da circa un anno e la mia stima nei suoi confronti è cresciuta giorno dopo giorno.
Ognuno, se pensa all’ambiente in cui lavora e ai colleghi con cui collabora, riconosce di avere alcuni rapporti privilegiati.
Marco rientrava tra quei colleghi con cui non ho mai condiviso nulla in particolare se non l’appartenenza alla stessa dell’azienda. Anzi, la storia che mi lega a lui è un po’ paradossale, visto come è nata, tanto che nell’ultimo periodo, ogni volta che vedevo il collega passare dal mio ufficio, mi scoprivo a sorridere. Quando sono arrivato in questa azienda alcuni colleghi mi hanno fatto di Marco un profilo che si è dimostrato ben lontano da quella che è effettivamente la personalità di quest’uomo.
Non avendo avuto fino allo scorso anno alcuna relazione professionale con il collega, ho mantenuto con lui un buon rapporto di lavoro, velato però da un forte pregiudizio inculcato dalla visione miope (e tendenziosa!) di altri colleghi.
Poi, per ragioni legate alla mia attività ho cominciato ad interagire con Marco, ed bastato molto poco perché il castello fatto di convinzioni errate crollasse.
Quando ci penso sorrido come uno stupido, perché capisco che la realtà ha superato di gran lunga qualunque ipotesi….in questo caso errata!
Frequentando il collega ho capito chiaramente cosa è un tutor, per usare un termine inglese, un maestro, per usare un termine pedagogico, o senza scandalo, un padre, nel senso di colui che introduce alla realtà….in questo caso professionale.
E io che sono padre di tre figli, comincio a capire bene la responsabilità che ho nei confronti dei miei piccoli.
La grande esperienza lavorativa, associata a una disponibilità umana fuori dal comune ha fatto si che molti colleghi stimassero Marco, e pertanto il confronto con lui fosse stimolante e costruttivo, oltre che divertente.
Nella società di oggi, a mio avviso, la figura della guida scarseggia, perché emerge sempre più l’individualità a dispetto della collettività, dove la visione “a corto raggio” della realtà fa si che si pensi all’oggi e se ci sarà un domani si vedrà. Nel mondo lavorativo, l’individualismo, salvo rare eccezioni, è spesso portato all’eccesso. La conoscenza diventa un fatto privato, non da condividere, e quello che io so lo tengo stretto, perché qualcun altro lo può apprendere e usare a suo vantaggio. Mi vengono in mente molti esempi vissuti direttamente, altri conosciuti per altre vie.
Piccolo o grande che sia l’orticello va curato, mantenuto, ma soprattutto protetto da intrusioni, quasi a rischio che la destra non sappia cosa fa la sinistra. Pertanto nelle aziende, sempre più spesso, la trasmissione dell’esperienza e delle conoscenze avviene attraverso il freddo sistema degli archivi elettronici e lo studio di case history raccolti in file di word.
E questo, secondo me, a lungo termine si dimostrerà un danno, perché limitare la memoria storica a un database o un dvd è come guidare per 10 anni un simulatore anziché una automobile da corsa.
E qualcuno ha mai vinto una competizione guidando un simulatore?
Ne segue, a mio avviso, un rallentamento dell’accelerazione delle aziende, della loro crescita, del loro sviluppo. L’apprendimento delle persone, è invece, la chiave di volta del successo delle aziende che non puntano solo sui prodotti.
Jean Marie Descarpentries, manager del gruppo Carnaud-Metal Box, sosteneva che in azienda si apprende in tre modi diversi: prima di tutto attraverso i capi, poi mediante le proprie esperienze e infine costituendo una rete di interlocutori di qualità. Il primo modo è fondamentale perché funge da apripista.
“Quando hai la fortuna di avere buoni capi, bisogna fare come la spugna: assorbire tutto. Ma un capo può, per incompetenza, uccidere la passione degli individui, mentre il suo ruolo sarebbe di risvegliarla” (J.M. Descarpentries).
Allargando un po’ il quadro, ritengo che un buon capo, oggi, dovrebbe capire l’enorme risorsa che sono le persone di esperienza e metterle a disposizione dei più giovani.
Naturalmente quando parlo di tutor, e prendo come esempio Marco, parlo di uno che istruisce agendo nella ordinarietà del quotidiano. Non mi riferisco a uno che insegna da dietro la cattedra di un training centre.
Perché il modo migliore, per un discepolo, di apprendere è l’imitazione e l’insegnamento più efficace, per un maestro, è mostrare.
Anzi di più, condizione migliore perché un discepolo possa imparare da un maestro è che quest’ultimo accompagni l’alunno nel suo percorso di apprendimento, e accompagnare implica più di un semplice ascoltare e suggerire. Impone una relazione, è un percorso in comune, un viaggio attraverso la quotidianità. E questo, secondo me, le aziende dovrebbero favorirlo, perché è un atteggiamento umano e professionalmente efficace.
In questo compito di saper far sapere, a mio avviso, Marco, è stato un esempio di maestro da cui imparare.
Sicuramente questo mio collega, come altri in passato nella mia azienda, uscirà dalla porta per entrare dalla finestra, magari come consulente per un anno. Se ciò avvenisse, per chi ha finora perduto l’occasione, potrebbe essere una opportunità da non lasciarsi sfuggire.
Grazie, Marco.
giovedì 22 ottobre 2009
lunedì 19 ottobre 2009
Le avventure del dott. Agatino Sapuppo n.1
Agatino Sapuppo, uomo quasi sulla quarantina è un fisico astronomico laureatosi presso la facoltà di Fisica dell’Università di Catania. Di bella presenza, alto, snello, capello color grigio topo, un po’ stempiato, fisico atletico, è una persona molto intelligente, di carattere solare, ricco di iniziative e sempre operativo. L’unico grande difetto che ha sono gli occhiali spessi, per via di una miopia mal curata da bambino, e il fatto che quasi sempre vive con la testa tra le nuvole, per cui distratto com’è va incontro a piccoli incidenti, qualche gaffe, e dimenticanze di ogni tipo.
Innamorato degli studi scientifici, ha tentato la carriera universitaria, con esito negativo, ha provato vari concorsi presso i centri di ricerca, senza successo, alla fine ha trovato posto come tecnico-commerciale in un’azienda che vende pannolini, pannoloni e accessori per l’intimo.
Il dottore Sapuppo non è molto soddisfatto del suo lavoro, ma la possibilità di stare spesso in giro e l’opportunità di frequentare molte persone sono per lui uno stimolo a fare bene la sua attività e raggiungere risultati interessanti.
Agatino Sapuppo è uomo del sud, nel fisico e nel carattere: scuro di carnagione, abbastanza villoso, parlata con chiaro accento siculo, sebbene viva al nord da più di 10 anni, porta sempre con sé una spilla della Trinacria, conserva in macchina una piccola carta toponomastica della sua città natale, tiene nel portafoglio un santino di S.Agata, e in camera da letto oltre a una immagine antica della Madonna col Bambino, ha appeso una litografia della Sicilia del ‘700.
Single per scelta, contrario al matrimonio e alla convivenza stabile, preferisce relazioni sentimentali poco vincolanti, ama passare di fiore in fiore,……ma fiori di qualità!
Il suo motto è: “minchia dura, sempre!”
Per un “incidente” di percorso accaduto in età giovanile, ha un figlio di 20 a cui è molto legato, che studia a Padova, e con cui talvolta trascorre il fine settimana.
Agatino Sapuppo, man on the clouds, è un appassionato del mare, delle immersioni in particolare, ma ama andare anche in montagna, sia in estate sia in inverno.
Da giovane, nei momenti liberi, era solito passeggiare sul lungomare, poi fermarsi su una panchina, accendersi un sigaro e godersi il tramonto, con la brezza marina che lambiva il suo volto. Altre volte, invece, andava direttamente sugli scogli, si denudava e in boxer faceva un bagno refrigerante nelle acque fredde dello Ionio.
La sua passione per la montagna è nata grazie ad alcuni amici che sin da piccolo lo portavano con loro sull’Etna. In realtà, da adolescente, Agatino Sapuppo era il più piccolo di corporatura e spesso i compagni lo usavano come cavia nei giochi che organizzavano. Nonostante questo, una innata passione per la natura e gli splendidi panorami visti dalla Valle del Bove hanno accresciuto in lui il desiderio di conoscere di più il mondo della montagna.
Ma la vita a volte è bastarda!
Così, Agatino vive in una città del nord, in pianura, dove il mare e la montagna sono difficilmente raggiungibili in giornata, dove il clima è umido in estate e freddo in inverno, dove il sole si vede a singhiozzo e la neve cade già nera per lo smog. La nebbia, in autunno, annulla i colori e rende l’ambiente circostante più ovattato.
Ma Agatino, cu minchia tu fici fari iritinni ‘o nord?
Innamorato degli studi scientifici, ha tentato la carriera universitaria, con esito negativo, ha provato vari concorsi presso i centri di ricerca, senza successo, alla fine ha trovato posto come tecnico-commerciale in un’azienda che vende pannolini, pannoloni e accessori per l’intimo.
Il dottore Sapuppo non è molto soddisfatto del suo lavoro, ma la possibilità di stare spesso in giro e l’opportunità di frequentare molte persone sono per lui uno stimolo a fare bene la sua attività e raggiungere risultati interessanti.
Agatino Sapuppo è uomo del sud, nel fisico e nel carattere: scuro di carnagione, abbastanza villoso, parlata con chiaro accento siculo, sebbene viva al nord da più di 10 anni, porta sempre con sé una spilla della Trinacria, conserva in macchina una piccola carta toponomastica della sua città natale, tiene nel portafoglio un santino di S.Agata, e in camera da letto oltre a una immagine antica della Madonna col Bambino, ha appeso una litografia della Sicilia del ‘700.
Single per scelta, contrario al matrimonio e alla convivenza stabile, preferisce relazioni sentimentali poco vincolanti, ama passare di fiore in fiore,……ma fiori di qualità!
Il suo motto è: “minchia dura, sempre!”
Per un “incidente” di percorso accaduto in età giovanile, ha un figlio di 20 a cui è molto legato, che studia a Padova, e con cui talvolta trascorre il fine settimana.
Agatino Sapuppo, man on the clouds, è un appassionato del mare, delle immersioni in particolare, ma ama andare anche in montagna, sia in estate sia in inverno.
Da giovane, nei momenti liberi, era solito passeggiare sul lungomare, poi fermarsi su una panchina, accendersi un sigaro e godersi il tramonto, con la brezza marina che lambiva il suo volto. Altre volte, invece, andava direttamente sugli scogli, si denudava e in boxer faceva un bagno refrigerante nelle acque fredde dello Ionio.
La sua passione per la montagna è nata grazie ad alcuni amici che sin da piccolo lo portavano con loro sull’Etna. In realtà, da adolescente, Agatino Sapuppo era il più piccolo di corporatura e spesso i compagni lo usavano come cavia nei giochi che organizzavano. Nonostante questo, una innata passione per la natura e gli splendidi panorami visti dalla Valle del Bove hanno accresciuto in lui il desiderio di conoscere di più il mondo della montagna.
Ma la vita a volte è bastarda!
Così, Agatino vive in una città del nord, in pianura, dove il mare e la montagna sono difficilmente raggiungibili in giornata, dove il clima è umido in estate e freddo in inverno, dove il sole si vede a singhiozzo e la neve cade già nera per lo smog. La nebbia, in autunno, annulla i colori e rende l’ambiente circostante più ovattato.
Ma Agatino, cu minchia tu fici fari iritinni ‘o nord?
giovedì 15 ottobre 2009
Film in spagnolo n.2
LOS PASOS PERDIDOS
di Manane Rodriguez
La pellicola è frutto di una coproduzione argentina-spagnola e prende spunto da fatti realmente accaduti in Argentina in occasione della dittatura militare tra gli anni settanta e ottanta.
Il film narra la storia di Monica Erigaray, una giovane ragazza di 22 anni che vive a Terragona con la sua famiglia, il padre Ernesto, argentino e proprietario di una grossa concessionaria di automobili, e Ines la madre.
Monica trascorre tranquillamente una vita agiata nella sua città e nulla sembra potere scalfire la serenità apparente della sua ricca famiglia borghese.
Ma l’imprevisto irrompe improvvisamente nella quotidianità della famiglia Erigaray, come un fulmine a ciel sereno, generando un terremoto in cui ogni personaggio coinvolto è costretto a fare i conti con la dura realtà.
La verità sulle origini di Monica, e la reale identità della famiglia Erigaray, emergono quando arriva in Spagna, Bruno Leardi, uno scrittore molto conosciuto in Argentina, che reclama Monica, il cui nome originario è Diana, come sua nipote, figlia di suo figlio, Bruno Leardi, e sua nuora Sara.
Nel 1979, durante la guerra civile in Argentina, i coniugi Leardi, due attivisti politici, vengono sequestrati, torturati e uccisi. I loro corpi non saranno mai ritrovati, e faranno parte dei numerosi “desaparecidos” reclamati dalle mamme di Plaza de Mayo.
Il film inizia con una scena agghiacciante: una bimba (che successivamente si capirà essere Monica) gioca con l’acqua nella vasca da bagno con la giovane mamma mentre fanno il bagno. All’improvviso un forte rumore, e la cinepresa dopo avere inquadrato per un istante il volto insanguinato della donna, si fissa sull’acqua della vasca che si tinge di rosso.
Quindi i titoli di testo e l’inizio della storia.
Ernesto Erigaray, al tempo della dittatura in Argentina, era responsabile di un centro clandestino di detenzione, dove i prigionieri venivano torturati, ed era anche mandante delle persecuzioni. Dopo avere fatto uccidere i coniugi Leardi, fa sequestrare la piccola Diana, le cambia i connotati anagrafici e la dichiara come figlia propria. Alla fine della guerra scappa con la moglie in Spagna, dove si arricchisce grazie alla concessionaria di automobili.
Sebbene la vicenda coinvolga anche i coniugi Erigaray, che vengono sottoposti a processo per i fatti accaduti in Argentina, Monica deve affrontare il dramma morale e psicologico di una storia che la vede coinvolta come protagonista anche se non causa. Il dolore per l’identità familiare perduta, l’inquietudine di non conoscere le vere origini, il crollo dei riferimenti affettivi, generano nella ragazza un terremoto umano che deve affrontare da sola.
La presenza del nonno argentino e la documentazione da lui fornita, le foto dei veri genitori e il racconto su come si sono svolti i fatti durante la guerra civile, inducono la ragazza ad intraprendere un cammino di riscoperta delle proprie origini che la portano ad organizzare una vacanza in Argentina. In tale occasione si imbatte nelle manifestazioni di Plaza de Mayo, e negli appelli in cui molti rivendicano il diritto di sapere la fine dei loro parenti di cui non hanno notizie.
La ragazza acquisisce la certezza che tra i desaparecidos ci sono anche i suoi veri genitori e questo la spinge a presentarsi a casa del nonno paterno, ignaro del viaggio, con il suo vero nome di Diana.
Il film mi ha colpito molto, in particolare l’atteggiamento della ragazza che, invece di arroccarsi sul fatto che i coniugi Erigaray fossero i suoi veri genitori, di fronte alle accuse mosse contro ha assecondato le ipotesi di Bruno Leardi fino a verificarne la storicità, e quindi cedere alla verità. Un percorso, quello di Monica, compiuto con molte difficoltà, tanta resistenza (sono significative le scene di pianto con cui la ragazza difende i genitori durante il processo!) ma senza chiudere a priori la porta su una verità più grande di lei.
di Manane Rodriguez
La pellicola è frutto di una coproduzione argentina-spagnola e prende spunto da fatti realmente accaduti in Argentina in occasione della dittatura militare tra gli anni settanta e ottanta.
Il film narra la storia di Monica Erigaray, una giovane ragazza di 22 anni che vive a Terragona con la sua famiglia, il padre Ernesto, argentino e proprietario di una grossa concessionaria di automobili, e Ines la madre.
Monica trascorre tranquillamente una vita agiata nella sua città e nulla sembra potere scalfire la serenità apparente della sua ricca famiglia borghese.
Ma l’imprevisto irrompe improvvisamente nella quotidianità della famiglia Erigaray, come un fulmine a ciel sereno, generando un terremoto in cui ogni personaggio coinvolto è costretto a fare i conti con la dura realtà.
La verità sulle origini di Monica, e la reale identità della famiglia Erigaray, emergono quando arriva in Spagna, Bruno Leardi, uno scrittore molto conosciuto in Argentina, che reclama Monica, il cui nome originario è Diana, come sua nipote, figlia di suo figlio, Bruno Leardi, e sua nuora Sara.
Nel 1979, durante la guerra civile in Argentina, i coniugi Leardi, due attivisti politici, vengono sequestrati, torturati e uccisi. I loro corpi non saranno mai ritrovati, e faranno parte dei numerosi “desaparecidos” reclamati dalle mamme di Plaza de Mayo.
Il film inizia con una scena agghiacciante: una bimba (che successivamente si capirà essere Monica) gioca con l’acqua nella vasca da bagno con la giovane mamma mentre fanno il bagno. All’improvviso un forte rumore, e la cinepresa dopo avere inquadrato per un istante il volto insanguinato della donna, si fissa sull’acqua della vasca che si tinge di rosso.
Quindi i titoli di testo e l’inizio della storia.
Ernesto Erigaray, al tempo della dittatura in Argentina, era responsabile di un centro clandestino di detenzione, dove i prigionieri venivano torturati, ed era anche mandante delle persecuzioni. Dopo avere fatto uccidere i coniugi Leardi, fa sequestrare la piccola Diana, le cambia i connotati anagrafici e la dichiara come figlia propria. Alla fine della guerra scappa con la moglie in Spagna, dove si arricchisce grazie alla concessionaria di automobili.
Sebbene la vicenda coinvolga anche i coniugi Erigaray, che vengono sottoposti a processo per i fatti accaduti in Argentina, Monica deve affrontare il dramma morale e psicologico di una storia che la vede coinvolta come protagonista anche se non causa. Il dolore per l’identità familiare perduta, l’inquietudine di non conoscere le vere origini, il crollo dei riferimenti affettivi, generano nella ragazza un terremoto umano che deve affrontare da sola.
La presenza del nonno argentino e la documentazione da lui fornita, le foto dei veri genitori e il racconto su come si sono svolti i fatti durante la guerra civile, inducono la ragazza ad intraprendere un cammino di riscoperta delle proprie origini che la portano ad organizzare una vacanza in Argentina. In tale occasione si imbatte nelle manifestazioni di Plaza de Mayo, e negli appelli in cui molti rivendicano il diritto di sapere la fine dei loro parenti di cui non hanno notizie.
La ragazza acquisisce la certezza che tra i desaparecidos ci sono anche i suoi veri genitori e questo la spinge a presentarsi a casa del nonno paterno, ignaro del viaggio, con il suo vero nome di Diana.
Il film mi ha colpito molto, in particolare l’atteggiamento della ragazza che, invece di arroccarsi sul fatto che i coniugi Erigaray fossero i suoi veri genitori, di fronte alle accuse mosse contro ha assecondato le ipotesi di Bruno Leardi fino a verificarne la storicità, e quindi cedere alla verità. Un percorso, quello di Monica, compiuto con molte difficoltà, tanta resistenza (sono significative le scene di pianto con cui la ragazza difende i genitori durante il processo!) ma senza chiudere a priori la porta su una verità più grande di lei.
giovedì 8 ottobre 2009
L'Head Hunter e la saggezza contadina
Una decina di giorni fa sono stato invitato a partecipare ad un incontro organizzato dal MIP, la business school del Politecnico di Milano. In quanto associato ad Alumni MIP, avendo fatto l’MBA, ho aderito volentieri.
Il titolo dell’incontro era “Come farsi cacciare dai cacciatori di teste”, presentazione del libro scritto a quattro mani da un head hunter e un giornalista, relatori della serata, edito dal Sole 24 Ore.
L’argomento era assai intrigante e destava molta curiosità, anche in chi, come me, non sta cercando una alternativa di lavoro.
L’aula del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, nella nuova sede di Milano Bovisa, era piena, segno che il tema trattato è di attualità e riscuote molto interesse in coloro che per scelta hanno intrapreso un certo percorso di studi nella speranza che la carriera professionale dia piene soddisfazioni.
La presentazione del libro è stata piuttosto esaustiva, ha offerto molti spunti di riflessione ma anche qualche perplessità.
Due sono i punti sviluppati da uno dei due relatori, sulla base della sua lunga esperienza professionale, che mi hanno lasciato di stucco:
- essere ingegneri (molti dei presenti in aula erano ingegneri) e avere fatto un master (tutti i presenti hanno fatto un master o un corso di specializzazione del MIP) non sono elementi necessari per essere ricercati dai cacciatori di teste o diventare manager. Anzi, i migliori manager attualmente in circolazione sono laureati in lettere e filosofia. Ora, io sono ingegnere e masterizzato, quindi quanto detto dall’head hunter è stata per me una pesante provocazione. Inoltre il MIP, che fa di tutto per pubblicizzare i Master che organizza, a mio avviso, non è uscito da questo intervento in maniera positiva.
- dopo i primi 10 anni di esperienza lavorativa, le competenze professionali contano poco, perché si da per scontato che uno prima o poi riesca a fare il lavoro, ma contano le relazioni (opinione che condivido!) e soprattutto la capacità di essere assertivi e disponibili verso i superiori e accondiscendenti alla loro visione del lavoro. Nel momento in cui diceva queste parole ho avuto (e non solo io!) come un sussulto, perché mi è parso di capire che per andare avanti è necessario essere….lecchini!!!....o usate un altro termine che volete! Questa mia impressione è stata condivisa da un paio di colleghi/amici presenti all’incontro con cui mi sono confrontato nei giorni successivi.
Ma, invece, la cosa che più mi ha colpito nell’intervento dell’head hunter è stato quando parlando della frenesia con cui molti cercano di cambiare lavoro, dello stress in cui tanti cadono nella ricerca di uno nuovo e dei CV che periodicamente riceve dalle stesse persone senza che in loro ci siano cambiamenti nell’attività professionale, ha citato una frase che usavano gli antichi contadini: “I frutti si raccolgono quando sono maturi”.
Come dire, è inutile affannarsi per ognuno c’è un tempo giusto!!
La frase mi ha sconvolto, perché mi sono ricordato di averla sentita dire tante volte dai miei nonni, che erano contadini, i quali lavoravano sodo, seminavano la loro terra, la coltivavano, la aravano, la irrigavano, la proteggevano dalle erbe malvagie e nel frattempo, con serenità, aspettavano che si compisse la loro opera.
Io, che talvolta per presunzione o per ignoranza ascoltavo con superficialità le parole sagge dei miei nonni, mi riscopro da un po’ di tempo a questa parte a ricercare nella memoria i momenti vissuti con loro e quanto della tradizione e delle origini mi hanno tramandato.
La frase, citata dal cacciatore di teste, mi ha colpito perché dentro un concetto laico, semplice, si cela un significato molto religioso: riconoscere che siamo fatti da un Altro, che, come citato nel Vangelo, sono contati tutti i capelli che abbiamo in testa.
Questa frase, che l’head hunter ha citato più volte, ha generato in me molta serenità, non perché mi ha deresponsabilizzato nell’attività di ricerca di un nuovo lavoro (alternativa che non sto per adesso cercando!), ma perché mi ha ricondotto ad una dimensione più razionale.
A me (a chi cerca lavoro in questo caso!) tocca seminare e coltivare la mia “terra” (dove terra in questo caso ha un significato molto ampio!), curarla, proteggerla e renderla fertile: ci sarà un momento in cui potrò raccogliere i frutti del lavoro, e si sa, il raccolto non sempre è come se lo aspetta il contadino. A volte è più scarso, ma altre volte è più abbondante del previsto.
Il titolo dell’incontro era “Come farsi cacciare dai cacciatori di teste”, presentazione del libro scritto a quattro mani da un head hunter e un giornalista, relatori della serata, edito dal Sole 24 Ore.
L’argomento era assai intrigante e destava molta curiosità, anche in chi, come me, non sta cercando una alternativa di lavoro.
L’aula del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, nella nuova sede di Milano Bovisa, era piena, segno che il tema trattato è di attualità e riscuote molto interesse in coloro che per scelta hanno intrapreso un certo percorso di studi nella speranza che la carriera professionale dia piene soddisfazioni.
La presentazione del libro è stata piuttosto esaustiva, ha offerto molti spunti di riflessione ma anche qualche perplessità.
Due sono i punti sviluppati da uno dei due relatori, sulla base della sua lunga esperienza professionale, che mi hanno lasciato di stucco:
- essere ingegneri (molti dei presenti in aula erano ingegneri) e avere fatto un master (tutti i presenti hanno fatto un master o un corso di specializzazione del MIP) non sono elementi necessari per essere ricercati dai cacciatori di teste o diventare manager. Anzi, i migliori manager attualmente in circolazione sono laureati in lettere e filosofia. Ora, io sono ingegnere e masterizzato, quindi quanto detto dall’head hunter è stata per me una pesante provocazione. Inoltre il MIP, che fa di tutto per pubblicizzare i Master che organizza, a mio avviso, non è uscito da questo intervento in maniera positiva.
- dopo i primi 10 anni di esperienza lavorativa, le competenze professionali contano poco, perché si da per scontato che uno prima o poi riesca a fare il lavoro, ma contano le relazioni (opinione che condivido!) e soprattutto la capacità di essere assertivi e disponibili verso i superiori e accondiscendenti alla loro visione del lavoro. Nel momento in cui diceva queste parole ho avuto (e non solo io!) come un sussulto, perché mi è parso di capire che per andare avanti è necessario essere….lecchini!!!....o usate un altro termine che volete! Questa mia impressione è stata condivisa da un paio di colleghi/amici presenti all’incontro con cui mi sono confrontato nei giorni successivi.
Ma, invece, la cosa che più mi ha colpito nell’intervento dell’head hunter è stato quando parlando della frenesia con cui molti cercano di cambiare lavoro, dello stress in cui tanti cadono nella ricerca di uno nuovo e dei CV che periodicamente riceve dalle stesse persone senza che in loro ci siano cambiamenti nell’attività professionale, ha citato una frase che usavano gli antichi contadini: “I frutti si raccolgono quando sono maturi”.
Come dire, è inutile affannarsi per ognuno c’è un tempo giusto!!
La frase mi ha sconvolto, perché mi sono ricordato di averla sentita dire tante volte dai miei nonni, che erano contadini, i quali lavoravano sodo, seminavano la loro terra, la coltivavano, la aravano, la irrigavano, la proteggevano dalle erbe malvagie e nel frattempo, con serenità, aspettavano che si compisse la loro opera.
Io, che talvolta per presunzione o per ignoranza ascoltavo con superficialità le parole sagge dei miei nonni, mi riscopro da un po’ di tempo a questa parte a ricercare nella memoria i momenti vissuti con loro e quanto della tradizione e delle origini mi hanno tramandato.
La frase, citata dal cacciatore di teste, mi ha colpito perché dentro un concetto laico, semplice, si cela un significato molto religioso: riconoscere che siamo fatti da un Altro, che, come citato nel Vangelo, sono contati tutti i capelli che abbiamo in testa.
Questa frase, che l’head hunter ha citato più volte, ha generato in me molta serenità, non perché mi ha deresponsabilizzato nell’attività di ricerca di un nuovo lavoro (alternativa che non sto per adesso cercando!), ma perché mi ha ricondotto ad una dimensione più razionale.
A me (a chi cerca lavoro in questo caso!) tocca seminare e coltivare la mia “terra” (dove terra in questo caso ha un significato molto ampio!), curarla, proteggerla e renderla fertile: ci sarà un momento in cui potrò raccogliere i frutti del lavoro, e si sa, il raccolto non sempre è come se lo aspetta il contadino. A volte è più scarso, ma altre volte è più abbondante del previsto.
domenica 4 ottobre 2009
Libri letti n.3
IL PUNTO CRITICO
di Malcolm Gladwell
In questo libro Malcolm Gladwell sviluppa in maniera semplice e accattivante la teoria secondo cui certi fenomeni sociali si diffondono come attraverso una sorta di passaparola mediatico che raggiunto un certo limite (il punto critico) genera un effetto valanga.
La teoria esposta da Gladwell sostiene che la contagiosità, il fatto che piccoli cambiamenti possono avere grandi effetti e che il cambiamento avviene non gradualmente, ma in un dato momento, sono alla base della diffusione di fattori come il morbillo a scuola, la riduzione improvvisa del tasso di criminalità a New York o il dilagare tra i giovani di un certo modello di scarpe.
Dal cap.1 del libro:
“In altre parole, le epidemie possono raggiungere il punto critico in più modi. Esse assumono caratteristiche diverse in funzione delle persone che trasmettono gli agenti del contagio, dell’agente stesso dell’infezione e dell’ambiente in cui quest’ultimo si trova a operare. Quando un’epidemia arriva al punto critico e il suo equilibrio viene sconvolto, ciò accade per qualche motivo particolare. Un determinato cambiamento si deve essere verificato in uno, forse due o persino tutti e tre i suddetti fattori, che chiamerò rispettivamente legge dei pochi, fattore presa e potere del contesto.”
Questi tre fattori sono magistralmente sviluppati nel libro con l’ausilio di aneddoti, fatti e dati scientifici che rendono il testo piacevole e avvincente.
Si rimane con gli occhi e la mente incollati al libro, curiosi di sapere cosa succede subito dopo, con le pagine che scivolano una dopo l’altra senza accorgersene minimamente.
di Malcolm Gladwell
In questo libro Malcolm Gladwell sviluppa in maniera semplice e accattivante la teoria secondo cui certi fenomeni sociali si diffondono come attraverso una sorta di passaparola mediatico che raggiunto un certo limite (il punto critico) genera un effetto valanga.
La teoria esposta da Gladwell sostiene che la contagiosità, il fatto che piccoli cambiamenti possono avere grandi effetti e che il cambiamento avviene non gradualmente, ma in un dato momento, sono alla base della diffusione di fattori come il morbillo a scuola, la riduzione improvvisa del tasso di criminalità a New York o il dilagare tra i giovani di un certo modello di scarpe.
Dal cap.1 del libro:
“In altre parole, le epidemie possono raggiungere il punto critico in più modi. Esse assumono caratteristiche diverse in funzione delle persone che trasmettono gli agenti del contagio, dell’agente stesso dell’infezione e dell’ambiente in cui quest’ultimo si trova a operare. Quando un’epidemia arriva al punto critico e il suo equilibrio viene sconvolto, ciò accade per qualche motivo particolare. Un determinato cambiamento si deve essere verificato in uno, forse due o persino tutti e tre i suddetti fattori, che chiamerò rispettivamente legge dei pochi, fattore presa e potere del contesto.”
Questi tre fattori sono magistralmente sviluppati nel libro con l’ausilio di aneddoti, fatti e dati scientifici che rendono il testo piacevole e avvincente.
Si rimane con gli occhi e la mente incollati al libro, curiosi di sapere cosa succede subito dopo, con le pagine che scivolano una dopo l’altra senza accorgersene minimamente.
giovedì 1 ottobre 2009
Film in spagnolo n.1
EN LA CAMA
di Matias Bize
Da quando ho cominciato a studiare la lingua spagnola uno dei metodi che uso per mantenerla viva è guardare alcuni film.
Da due anni sono diventato un fedele cliente della biblioteca dell’istituto Cervantes, dove prendo i film da vedere e qualche rivista da leggere.
La cineteca è molto rifornita di dvd, molti dei quali a me sconosciuti, per cui scegliere un film non è cosa semplice, se oltre alla lingua parlata e alla possibilità di sottotitoli in castellano tengo conto anche della trama.
Ma tenendo conto che ho intenzione di vedere quanti più film possibile, prima o poi, quello che in una fase iniziale scarto è probabile che lo veda successivamente.
Così ho scelto “En la cama” di Matias Bize, che tradotto letteralmente è “Nel letto”.
Il film racconta di due giovani, Bruno (per lo scrivente Mandrake!) e Daniela, che si conoscono in un caffè e un’ora dopo il loro primo approccio affittano una camera d’albergo per avere un incontro sessuale. L’appuntamento diventa occasione per raccontarsi il loro passato e la loro intimità. Finiranno per conoscersi, e sebbene non si rivedranno mai più, il loro incontro cambierà per sempre la vita di ciascuno.
Il film l’ho scelto per due ragioni serie e una curiosità:
1) Mi interessa soprattutto esercitare la lingua spagnola, i suoni, gli accenti e pertanto un film vale l’altro.
2) Il film è stato premiato con la “Spiga d’Oro” come migliore pellicola al festival di Valladolid nel 2005.
3) Volevo vedere la “tecnica” usata da Mandrake per approcciare la donna, e solo dopo un’ora riuscire a portarsela a letto.
Il film si è svolto per intero in una camera da letto, in un arco temporale di qualche ora, dove i due protagonisti, e unici attori, si confessavano a vicenda interrompendo il loro dialogo, come spot pubblicitari, con continui rapporti sessuali.
L’argomento era uno solo: le rispettive esperienze amorose precedenti il loro incontro.
Il film è stato girato con cinepresa a “spalla”, per cui mi è venuto il mar di mare, grazie anche ai continui primi piani e ai cambiamenti d’inquadratura repentini. La trama era piuttosto scarsa di contenuti e a domanda banale si susseguiva una risposta altrettanto scontata.
Le parole si comprendevano a fatica, perché più che parlare bisbigliavano e l’audio del film non era eccellente.
Il momento più aulico nei dialoghi tra i due attori è stato raggiunto a metà film, quando la donna, che di recente aveva vissuto una storia d’amore finita male, confessa di essersi innamorata di Bruno, mentre lui comodamente le risponde che tra loro non c’e niente ma che stanno semplicemente passando alcune ore in maniera piacevole. Fuori da quella stanza, continua Bruno, sarebbero ritornati due comuni estranei.
Un signore!!
Il film è terminato con l’ennesimo rapporto sessuale, così come era cominciato.
Mentre vedevo scorrere i titoli di coda, ho tratto le seguenti conclusioni:
1) ho allenato poco il mio spagnolo, visto che i dialoghi erano incomprensibili, come se i due attori parlassero con le spalle al microfono
2) più che la Spiga d’Oro, secondo me il film ha vinto la “Mazza d’Oro” al festival di Pian dei Pirenei, perché il valore cinematografico del film è pressoché nullo.
3) pensavo di imparare una efficace tecnica di approccio alle donne ma sono rimasto deluso, perché il film è iniziato con Mandrake che aveva compiuto la sua opera di persuasione e quindi era passato ai fatti. Viste le notevoli performances un altro titolo azzeccato per il film poteva essere “Sobra y abajo de Daniela”
In conclusione, il film è stato piuttosto scadente.
di Matias Bize
Da quando ho cominciato a studiare la lingua spagnola uno dei metodi che uso per mantenerla viva è guardare alcuni film.
Da due anni sono diventato un fedele cliente della biblioteca dell’istituto Cervantes, dove prendo i film da vedere e qualche rivista da leggere.
La cineteca è molto rifornita di dvd, molti dei quali a me sconosciuti, per cui scegliere un film non è cosa semplice, se oltre alla lingua parlata e alla possibilità di sottotitoli in castellano tengo conto anche della trama.
Ma tenendo conto che ho intenzione di vedere quanti più film possibile, prima o poi, quello che in una fase iniziale scarto è probabile che lo veda successivamente.
Così ho scelto “En la cama” di Matias Bize, che tradotto letteralmente è “Nel letto”.
Il film racconta di due giovani, Bruno (per lo scrivente Mandrake!) e Daniela, che si conoscono in un caffè e un’ora dopo il loro primo approccio affittano una camera d’albergo per avere un incontro sessuale. L’appuntamento diventa occasione per raccontarsi il loro passato e la loro intimità. Finiranno per conoscersi, e sebbene non si rivedranno mai più, il loro incontro cambierà per sempre la vita di ciascuno.
Il film l’ho scelto per due ragioni serie e una curiosità:
1) Mi interessa soprattutto esercitare la lingua spagnola, i suoni, gli accenti e pertanto un film vale l’altro.
2) Il film è stato premiato con la “Spiga d’Oro” come migliore pellicola al festival di Valladolid nel 2005.
3) Volevo vedere la “tecnica” usata da Mandrake per approcciare la donna, e solo dopo un’ora riuscire a portarsela a letto.
Il film si è svolto per intero in una camera da letto, in un arco temporale di qualche ora, dove i due protagonisti, e unici attori, si confessavano a vicenda interrompendo il loro dialogo, come spot pubblicitari, con continui rapporti sessuali.
L’argomento era uno solo: le rispettive esperienze amorose precedenti il loro incontro.
Il film è stato girato con cinepresa a “spalla”, per cui mi è venuto il mar di mare, grazie anche ai continui primi piani e ai cambiamenti d’inquadratura repentini. La trama era piuttosto scarsa di contenuti e a domanda banale si susseguiva una risposta altrettanto scontata.
Le parole si comprendevano a fatica, perché più che parlare bisbigliavano e l’audio del film non era eccellente.
Il momento più aulico nei dialoghi tra i due attori è stato raggiunto a metà film, quando la donna, che di recente aveva vissuto una storia d’amore finita male, confessa di essersi innamorata di Bruno, mentre lui comodamente le risponde che tra loro non c’e niente ma che stanno semplicemente passando alcune ore in maniera piacevole. Fuori da quella stanza, continua Bruno, sarebbero ritornati due comuni estranei.
Un signore!!
Il film è terminato con l’ennesimo rapporto sessuale, così come era cominciato.
Mentre vedevo scorrere i titoli di coda, ho tratto le seguenti conclusioni:
1) ho allenato poco il mio spagnolo, visto che i dialoghi erano incomprensibili, come se i due attori parlassero con le spalle al microfono
2) più che la Spiga d’Oro, secondo me il film ha vinto la “Mazza d’Oro” al festival di Pian dei Pirenei, perché il valore cinematografico del film è pressoché nullo.
3) pensavo di imparare una efficace tecnica di approccio alle donne ma sono rimasto deluso, perché il film è iniziato con Mandrake che aveva compiuto la sua opera di persuasione e quindi era passato ai fatti. Viste le notevoli performances un altro titolo azzeccato per il film poteva essere “Sobra y abajo de Daniela”
In conclusione, il film è stato piuttosto scadente.
Iscriviti a:
Post (Atom)