Il 27 novembre si è svolta la XIV Giornata Nazionale della Colletta Alimentare.
Come ogni anno, insieme ai miei amici più cari e tantissimi volontari, abbiamo organizzato la raccolta degli alimenti al Centro Commerciale Carrefour di Assago.
La giornata è stata tiepida e assolata nella prima metà, nuvolosa e molto umida dal pomeriggio.
Quest’anno, a dire il vero, ho fatto più fatica degli scorsi.
Uno perché, senza sapermi ancora dare una ragione il numero dei volontari per ogni fascia di turno era inferiore agli anni passati, e questo ha richiesto a ognuno una dedizione e una responsabilità maggiore al gesto che compivamo.
Due perché il nostro amico che ogni anno mette a disposizione il camion dotato di sponda idraulica e il trans pallet, quest’anno per motivi di salute ha rinunciato, per cui abbiamo dovuto procurare, grazie ad amici, un camion piuttosto grande che ci consentisse di caricare i pallet con le scatole. Per fortuna che, la disponibilità dei responsabili del supermercato Carrefour ci ha permesso di usufruire per l’intera giornata di un loro trans pallet.
Alle 21.30, quando abbiamo “tirato le somme”, la quantità raccolta ammontava a 7400kg, circa 600 scatole del peso medio di 13kg….che abbiamo dovuto caricare a mano sul camion.
Sono tornato a casa dolorante e tanto infreddolito, e il giorno dopo ogni movimento è stato effettuato con assoluta delicatezza per ridurre al minimo lo stress dei muscoli.
La giornata della Colletta Alimentare, contiene sempre una sorpresa, un imprevisto che la rende diversa da quella dell’anno precedente, per cui non posso dire: “E’ una cosa che so già!!”. So cosa è, in cosa consiste e cosa devo fare, ma l’esito è sempre una novità.
Ritorno a casa ogni anno più stanco, ma sempre più contento.
L’esperienza che vivo ogni anno è quella di una grande commozione nel vedere come tanta gente condivida in maniera gratuita, donando tanto o poco, il bisogno di altri.
Ho incontrato tanti volontari, alcuni per l’ennesima volta, altri per la prima: la gioia che ho intravisto nei loro occhi è stata più grande alla fine del turno che non all’inizio. Eppure alcuni erano infreddoliti, altri stanchi di svuotare i carrelli con gli alimenti, altri ancora esausti di preparare e riempire i cartoni. Ho incontrato molti donatori, spesso poche parole sono intercorse tra noi, ma lo sguardo era quello di una persona contenta di avere compiuto un gesto di carità, al di là del contenuto e del valore.
Alla fine della Giornata, il numero che indica la quantità di cibo raccolto diventa un particolare: è senza dubbio importante, ma l’esperienza più grande è stata quella di condividere con tanti questo gesto di carità.
http://www.bancoalimentare.it/colletta-alimentare-2010/
venerdì 3 dicembre 2010
martedì 30 novembre 2010
Papà, mi porti con te?
“Papà, mi porti con te?”
Questa domanda, ormai ricorre spesso nei dialoghi con i miei figli, soprattutto con il maggiore.
E’ evidente che da parte sua ci sia il desiderio di passare ancora più tempo con me, che non basta più la sera in cui spesso giochiamo a calcio, con la pallina di spugna, lungo il corridoio (per la disperazione di mia moglie!), talvolta guardiamo lo sport in tv, alcune volte giochiamo al pc. Ha bisogno di condividere ancora di più.
E ogni occasione è buona per fare emergere questa necessità.
Così, per esempio, sabato pomeriggio scorso, io lavoravo al computer, mia moglie era intenta a leggere, le mie figlie giocavano in camera e mio figlio tentava di fare gli ultimi compiti di matematica.
Trascorsi dieci minuti, mio figlio comincia a fare i capricci, è distratto, non è capace di concentrarsi e quindi comincia a battere i pugni sul tavolo, dà calci al muro…..
In pochi secondi mia moglie ci impone di prepararci e uscire fuori di casa.
Giunti in cortile, saliti in macchina, mio figlio mi dice: “Papà, non ho voglia di andare in centro, ci facciamo una passeggiata a piedi?”
Un invito a nozze, per un buon camminatore come me!
Così, mentre le donne di casa vanno a fare acquisti in centro, con mio figlio cominciamo una bella passeggiata lungo la ciclabile, quindi attraversiamo in lungo e in largo il paese, infine, senza averlo programmato a priori ci avviciniamo agli impianti sportivi.
Al parcheggio c’erano parecchie auto, per cui ho detto a mio figlio, “vuoi vedere che giocano a basket?”. “Gioca l’Armani Jeans?”, mi domanda, “ma và, lo sai che gioca al Forum”, gli rispondo.
Così entriamo nella palestra e ci sediamo sugli spalti insieme ai tifosi. Giocavano due squadre di ragazzi, circa 15-16 anni, e i tifosi erano prevalentemente i genitori.
Per la cronaca, ha vinto la squadra di casa, dopo un match combattuto e agonistico, e il tifo è stato davvero coinvolgente: trombe, tamburi, fischietti……
Ma in quei quaranta minuti che sono stato a vedere la partita, seduto accanto a mio figlio e un mio amico che nel frattempo ci aveva raggiunto ho pensato a molte cose.
Innanzitutto, cosa mi chiede mio figlio.
La domanda che mio figlio mi pone sempre con maggiore frequenza è la stessa domanda che ho posto io a mio padre quando ero piccolo.
E la mia domanda ha trovato risposta nei tanti momenti che ho vissuto assieme a mio papà, un vero patrimonio per la mia persona.
Alcuni banali esempi: l’abbonamento allo stadio che facemmo per assistere alle partite della squadra del paese, qualche pomeriggio al cinema, le lunghe camminate sul lungomare.
Spesso, tra i sette e i dieci anni, in estate, andavo in ufficio con mio papà (mi sedevo su una scrivania libera del suo ufficio e armato di matita e penne disegnavo!), oppure andavo in trasferta con lui (in questo caso scorazzavo con compostezza lungo gli uffici) e vivevo con profonda attesa il momento del pranzo, circostanza privilegiata del nostro rapporto a due.
E sebbene, poi, per lavoro mio padre era spesso in giro per cui per giorni lo vedevo di sfuggita al mattino o la sera, quei momenti rimangono delle pietre miliari.
E questo, nonostante che, poche volte mio papà era presente alle mie esibizioni di nuoto o difficilmente venisse a guardarmi giocare a tennis, come invece hanno fatto sabato scorso i genitori di quei ragazzi che giocavano a basket.
Chissà, magari tra otto o nove anni, anch’io sarò al posto di quei genitori, a incitare mio figlio mentre si esprime in un’attività sportiva, e sono certo che sarò tra i più scalmanati a fare il tifo.
Nel frattempo, di recente, mio figlio, si è esibito nel suo primo concorso di pianoforte.
Ancora esordiente, ha suonato due brani da solista (di cui uno era l’inno di Mameli), e uno a quattro mani con una sua compagna di corso.
“Ma come mette le mani sul pianoforte! Che leggiadria! Ma da quanti anni suona?”, qualcuno ha chiesto.
Mio figlio s’è meritato i complimenti della giuria e della maestra che senza esitazione ha confermato, davanti ai presenti, la predisposizione privilegiata allo strumento e che se studia può imparare tanto.
La sera, parlandone con mia moglie, ho fatto notare come nostro figlio, inizialmente emozionato e teso, una volta convocato, di fronte allo strumento s’è concentrato e come se si fosse isolato dal “mondo” ha suonato con sicurezza e tranquillità.
La risposta è stata sintetica e chiara: “…non hai capito un c…..!!! Tuo figlio era sereno e sicuro perché sapeva che c’era il suo papà ad ascoltarlo!!!...e questo me lo ha detto lui questo pomeriggio.”
Come genitore, provo una commozione immensa per quello che ho visto, per un dono di cui non sono artefice ma che ho la responsabilità di custodire e stimolare.
Questa domanda, ormai ricorre spesso nei dialoghi con i miei figli, soprattutto con il maggiore.
E’ evidente che da parte sua ci sia il desiderio di passare ancora più tempo con me, che non basta più la sera in cui spesso giochiamo a calcio, con la pallina di spugna, lungo il corridoio (per la disperazione di mia moglie!), talvolta guardiamo lo sport in tv, alcune volte giochiamo al pc. Ha bisogno di condividere ancora di più.
E ogni occasione è buona per fare emergere questa necessità.
Così, per esempio, sabato pomeriggio scorso, io lavoravo al computer, mia moglie era intenta a leggere, le mie figlie giocavano in camera e mio figlio tentava di fare gli ultimi compiti di matematica.
Trascorsi dieci minuti, mio figlio comincia a fare i capricci, è distratto, non è capace di concentrarsi e quindi comincia a battere i pugni sul tavolo, dà calci al muro…..
In pochi secondi mia moglie ci impone di prepararci e uscire fuori di casa.
Giunti in cortile, saliti in macchina, mio figlio mi dice: “Papà, non ho voglia di andare in centro, ci facciamo una passeggiata a piedi?”
Un invito a nozze, per un buon camminatore come me!
Così, mentre le donne di casa vanno a fare acquisti in centro, con mio figlio cominciamo una bella passeggiata lungo la ciclabile, quindi attraversiamo in lungo e in largo il paese, infine, senza averlo programmato a priori ci avviciniamo agli impianti sportivi.
Al parcheggio c’erano parecchie auto, per cui ho detto a mio figlio, “vuoi vedere che giocano a basket?”. “Gioca l’Armani Jeans?”, mi domanda, “ma và, lo sai che gioca al Forum”, gli rispondo.
Così entriamo nella palestra e ci sediamo sugli spalti insieme ai tifosi. Giocavano due squadre di ragazzi, circa 15-16 anni, e i tifosi erano prevalentemente i genitori.
Per la cronaca, ha vinto la squadra di casa, dopo un match combattuto e agonistico, e il tifo è stato davvero coinvolgente: trombe, tamburi, fischietti……
Ma in quei quaranta minuti che sono stato a vedere la partita, seduto accanto a mio figlio e un mio amico che nel frattempo ci aveva raggiunto ho pensato a molte cose.
Innanzitutto, cosa mi chiede mio figlio.
La domanda che mio figlio mi pone sempre con maggiore frequenza è la stessa domanda che ho posto io a mio padre quando ero piccolo.
E la mia domanda ha trovato risposta nei tanti momenti che ho vissuto assieme a mio papà, un vero patrimonio per la mia persona.
Alcuni banali esempi: l’abbonamento allo stadio che facemmo per assistere alle partite della squadra del paese, qualche pomeriggio al cinema, le lunghe camminate sul lungomare.
Spesso, tra i sette e i dieci anni, in estate, andavo in ufficio con mio papà (mi sedevo su una scrivania libera del suo ufficio e armato di matita e penne disegnavo!), oppure andavo in trasferta con lui (in questo caso scorazzavo con compostezza lungo gli uffici) e vivevo con profonda attesa il momento del pranzo, circostanza privilegiata del nostro rapporto a due.
E sebbene, poi, per lavoro mio padre era spesso in giro per cui per giorni lo vedevo di sfuggita al mattino o la sera, quei momenti rimangono delle pietre miliari.
E questo, nonostante che, poche volte mio papà era presente alle mie esibizioni di nuoto o difficilmente venisse a guardarmi giocare a tennis, come invece hanno fatto sabato scorso i genitori di quei ragazzi che giocavano a basket.
Chissà, magari tra otto o nove anni, anch’io sarò al posto di quei genitori, a incitare mio figlio mentre si esprime in un’attività sportiva, e sono certo che sarò tra i più scalmanati a fare il tifo.
Nel frattempo, di recente, mio figlio, si è esibito nel suo primo concorso di pianoforte.
Ancora esordiente, ha suonato due brani da solista (di cui uno era l’inno di Mameli), e uno a quattro mani con una sua compagna di corso.
“Ma come mette le mani sul pianoforte! Che leggiadria! Ma da quanti anni suona?”, qualcuno ha chiesto.
Mio figlio s’è meritato i complimenti della giuria e della maestra che senza esitazione ha confermato, davanti ai presenti, la predisposizione privilegiata allo strumento e che se studia può imparare tanto.
La sera, parlandone con mia moglie, ho fatto notare come nostro figlio, inizialmente emozionato e teso, una volta convocato, di fronte allo strumento s’è concentrato e come se si fosse isolato dal “mondo” ha suonato con sicurezza e tranquillità.
La risposta è stata sintetica e chiara: “…non hai capito un c…..!!! Tuo figlio era sereno e sicuro perché sapeva che c’era il suo papà ad ascoltarlo!!!...e questo me lo ha detto lui questo pomeriggio.”
Come genitore, provo una commozione immensa per quello che ho visto, per un dono di cui non sono artefice ma che ho la responsabilità di custodire e stimolare.
giovedì 4 novembre 2010
Io e la caritativa
Da due anni faccio caritativa alla Caritas, ogni quindici giorni il sabato mattina.
Cosa è la caritativa?
Mons. Luigi Giussani (1922 – 2005), fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, nel libretto “Il senso della Caritativa” la spiega così:
“Quando c'è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell'esistenza.
Noi andiamo in «caritativa» per soddisfare questa esigenza.
…….
Quanto più noi viviamo questa esigenza e questo dovere, tanto più realizziamo noi stessi; comunicare agli altri ci dà proprio l'esperienza di completare noi stessi. Tanto è vero che, se non riusciamo a dare, ci sentiamo diminuiti. Interessarci degli altri, comunicarci agli altri, ci fa compiere il supremo, anzi unico, dovere della vita, che è realizzare noi stessi, compiere noi stessi.
Noi andiamo in «caritativa» per imparare a compiere questo dovere.
……
Ma Cristo ci ha fatto capire il perché profondo di tutto ciò svelandoci la legge ultima dell'essere e della vita: la carità. La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l'essere degli altri, è mettere in comune se stessi. Solo Gesù Cristo ci dice tutto questo, perché Egli sa cos'è ogni cosa, che cos'è Dio da cui nasciamo, che cos'è l'Essere.
Tutta la parola «carità» riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra situazione, ma si è fatto misero come noi, ha «condiviso» la nostra nullità.
Noi andiamo in «caritativa» per imparare a vivere come Cristo.”
Questi tre punti sono alla base della mia scelta di aderire alla caritativa, gesto che ho compiuto fedelmente durante gli anni di liceo, quando facevo studiare alcuni ragazzi delle scuole medie di un quartiere degradato della mia città.
Dopo molti anni in cui, per motivi di lavoro, di famiglia, per noia, distrazione e mancanza di ragioni chiare non ho più fatto caritativa, ho accettato di riprendere grazie al rapporto di amicizia con alcune persone.
Mi è stato proposto di dare una mano alla Caritas del mio paese, che si occupa tra l’altro della distribuzione del pacco alimentare alle famiglie bisognose.
Ogni quindici giorni, insieme ad altri volontari, ci vediamo per sistemare gli scaffali pieni di alimenti, riempire le borse e consegnarle alle persone povere del mio paese.
Come compito mi è stato chiesto di preparare le borse che altri volontari ritirano all’ingresso e poi riconsegnano piene ai bisognosi. L’ambiente è molto semplice e vivo, la maggior parte dei volontari sono donne ultra sessantenni e uomini in pensione e rappresentano il fulcro dell’attività. Le nonnine, come simpaticamente le chiamiamo, sono vispe e attive, come se le avessero caricate a molla…non si fermano un istante. Hanno proprio una passione per l’umano e per il servizio che svolgono che traspare a occhio nudo.
Ho provato a domandare più volte cosa le spingesse a fare il gesto della Caritas, ma la risposta ottenuta non mi ha soddisfatto molto. Però basta guardarle in azione per capire!!
Nel frattempo, prendo sempre più coscienza che attraverso quel semplice gesto di mettere il latte, la pasta, il formaggio, il pane o qualcos’altro dentro le borse, dò la possibilità a qualcuno di soddisfare un bisogno. E questo passa attraverso la soddisfazione di un mio bisogno.
Sempre più spesso, oltre che riempire le buste le consegno direttamente alle persone. Ci sono pochi anziani, a cui il pacco viene recapitato a casa, molte giovani mamme slave o musulmane, tanti italiani. La consegna della borsa dura un istante, il tempo che dalla mia mano passi nella mano dell’altro, ma un istante che vale infinito.
Cerco sempre lo sguardo delle persone che incontro.
Spesso incrocio occhi semplici, sorrisi limpidi e volti di persone sofferenti. Ma spesso lieti!
Nell’esperienza che faccio tocco con mano cosa sia l’uomo mendicante, l’uomo bisognoso di tutto, l’uomo mendicante di Cristo.
Cristo in quel momento passa attraverso il bisogno del latte, dei pelati, della farina……
Il “Grazie” con cui quasi tutti accettano il pacco alimentare e mi salutano, mi rende ancora più familiare con loro e con il loro bisogno da soddisfare.
La cosa che più mi colpisce è la letizia e la serenità che mi accompagna in questo gesto, non perché sia un’opera buona, ma perché donato e offerto totalmente a Dio. E il primo beneficiario sono io.
Cosa è la caritativa?
Mons. Luigi Giussani (1922 – 2005), fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, nel libretto “Il senso della Caritativa” la spiega così:
“Quando c'è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell'esistenza.
Noi andiamo in «caritativa» per soddisfare questa esigenza.
…….
Quanto più noi viviamo questa esigenza e questo dovere, tanto più realizziamo noi stessi; comunicare agli altri ci dà proprio l'esperienza di completare noi stessi. Tanto è vero che, se non riusciamo a dare, ci sentiamo diminuiti. Interessarci degli altri, comunicarci agli altri, ci fa compiere il supremo, anzi unico, dovere della vita, che è realizzare noi stessi, compiere noi stessi.
Noi andiamo in «caritativa» per imparare a compiere questo dovere.
……
Ma Cristo ci ha fatto capire il perché profondo di tutto ciò svelandoci la legge ultima dell'essere e della vita: la carità. La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l'essere degli altri, è mettere in comune se stessi. Solo Gesù Cristo ci dice tutto questo, perché Egli sa cos'è ogni cosa, che cos'è Dio da cui nasciamo, che cos'è l'Essere.
Tutta la parola «carità» riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra situazione, ma si è fatto misero come noi, ha «condiviso» la nostra nullità.
Noi andiamo in «caritativa» per imparare a vivere come Cristo.”
Questi tre punti sono alla base della mia scelta di aderire alla caritativa, gesto che ho compiuto fedelmente durante gli anni di liceo, quando facevo studiare alcuni ragazzi delle scuole medie di un quartiere degradato della mia città.
Dopo molti anni in cui, per motivi di lavoro, di famiglia, per noia, distrazione e mancanza di ragioni chiare non ho più fatto caritativa, ho accettato di riprendere grazie al rapporto di amicizia con alcune persone.
Mi è stato proposto di dare una mano alla Caritas del mio paese, che si occupa tra l’altro della distribuzione del pacco alimentare alle famiglie bisognose.
Ogni quindici giorni, insieme ad altri volontari, ci vediamo per sistemare gli scaffali pieni di alimenti, riempire le borse e consegnarle alle persone povere del mio paese.
Come compito mi è stato chiesto di preparare le borse che altri volontari ritirano all’ingresso e poi riconsegnano piene ai bisognosi. L’ambiente è molto semplice e vivo, la maggior parte dei volontari sono donne ultra sessantenni e uomini in pensione e rappresentano il fulcro dell’attività. Le nonnine, come simpaticamente le chiamiamo, sono vispe e attive, come se le avessero caricate a molla…non si fermano un istante. Hanno proprio una passione per l’umano e per il servizio che svolgono che traspare a occhio nudo.
Ho provato a domandare più volte cosa le spingesse a fare il gesto della Caritas, ma la risposta ottenuta non mi ha soddisfatto molto. Però basta guardarle in azione per capire!!
Nel frattempo, prendo sempre più coscienza che attraverso quel semplice gesto di mettere il latte, la pasta, il formaggio, il pane o qualcos’altro dentro le borse, dò la possibilità a qualcuno di soddisfare un bisogno. E questo passa attraverso la soddisfazione di un mio bisogno.
Sempre più spesso, oltre che riempire le buste le consegno direttamente alle persone. Ci sono pochi anziani, a cui il pacco viene recapitato a casa, molte giovani mamme slave o musulmane, tanti italiani. La consegna della borsa dura un istante, il tempo che dalla mia mano passi nella mano dell’altro, ma un istante che vale infinito.
Cerco sempre lo sguardo delle persone che incontro.
Spesso incrocio occhi semplici, sorrisi limpidi e volti di persone sofferenti. Ma spesso lieti!
Nell’esperienza che faccio tocco con mano cosa sia l’uomo mendicante, l’uomo bisognoso di tutto, l’uomo mendicante di Cristo.
Cristo in quel momento passa attraverso il bisogno del latte, dei pelati, della farina……
Il “Grazie” con cui quasi tutti accettano il pacco alimentare e mi salutano, mi rende ancora più familiare con loro e con il loro bisogno da soddisfare.
La cosa che più mi colpisce è la letizia e la serenità che mi accompagna in questo gesto, non perché sia un’opera buona, ma perché donato e offerto totalmente a Dio. E il primo beneficiario sono io.
venerdì 8 ottobre 2010
Ascensione sul Monte Rosa - Capanna Margherita
Partiamo da casa mia il 28 agosto intorno alle 10,00. La giornata è splendida, assolata e calda. Il viaggio di trasferimento a Gressoney la Trinitè è tranquillo e poco trafficato. Giunti al parcheggio, ci cambiamo e passiamo in rassegna tutto il materiale necessario per l’ascensione. Quindi, ci carichiamo lo zaino in spalla e ci avviamo verso gli impianti di risalita. Con due cabinovie (Stafal- Gabiet, la prima, Gabiet – Passo dei Salati, la seconda) e una funivia (Passo dei salati – Punta Ildren) giungiamo a quota 3200m circa. Per arrivare al rifugio dobbiamo percorrere un sentiero, in parte su ghiacciaio, in parte su roccia attraverso passaggi irti ma attrezzati che affrontiamo in circa un’ora. Il rifugio Gnifetti è situato a circa 3600 m di quota. Il tempo è bello, c’è il sole e fa abbastanza caldo. L’altitudine non dà alcun fastidio, certo, occorre fare i movimenti un po’ più lentamente, soprattutto quelli in verticali, perché la testa gira un po’. Gli ospiti siamo un centinaio, molti i gruppi accompagnati da guide alpine di Alagna. La stellata notturna è fantastica grazie al cielo terso. La notte, purtroppo è insonne, non solo per me ma anche per il mio compagno di cordata. La quota e soprattutto la tensione per l’ascensione da affrontare si fanno sentire. Anche stavolta, la sveglia alle 4, è vista come una liberazione e velocemente mi lavo, mi vesto e mi preparo per la colazione. L’intenzione è partire velocemente per essere tra i primi sulla via e sperare di arrivare presto alla capanna Margherita. Ma si sa, i programmi sono fatti per essere disattesi. Cosicchè, i crampi prima e altri problemi intestinali dopo, ritardano di molto la partenza della mia cordata. Sono grato al mio compagno “di viaggio” per la pazienza che ha mantenuto, avrebbe potuto legarsi all’altro gruppo e lasciarmi al rifugio!
Finalmente alle 6 sto meglio: decidiamo di legarci e prepararci. Quando ci avviamo, già molte cordate ci precedono, e purtroppo il passo è sin dall’inizio lento e continuamente interrotto. Superata la parte crepacciata, piuttosto insidiosa, poiché guido la cordata propongo al mio compagno di tenere un passo regolare e più veloce, così da superare molti che ci stanno davanti. Mentre gli altri compagni rimangono indietro, più tardi rinunceranno a salire e ritorneranno indietro, noi cominciamo la nostra marcia a tappe forzate. Siamo inarrestabili, passo dopo passo, superiamo molte cordate e decidiamo di fermarci, qualche minuto, una sola volta su un’area pianeggiante per bagnare le labbra secche e rosicchiare qualcosa. Riprendiamo con il ritmo di prima e così proseguiamo fino a 50 m dall’obiettivo.
All’improvviso il buio davanti a me. La benzina è finita! A secco! A 10 min dalla capanna, un ultimo strappo di 50m, la mia forza motrice è pari a zero. Le gambe ci sono, ma il fiato no. Proseguo molto lentamente, ogni due passi faccio una pausa, il ritmo è davvero lento. Qualche cordata riesce a ricuperarci.
Solo il desiderio di arrivare in cima e la pretesa di vedere il panorama di lassù mi consentono di tirare una gamba dietro l’altra e arrivare a destinazione. Alle 10 siamo alla capanna Margherita, 4559m. Sono sul rifugio più alto d’Europa!!!. C’è molto vento e la temperatura è piuttosto bassa. Ma c’è il sole e questo fa la differenza!
Dopo il primo minuto di affanno, riprendo consapevolezza e comincio a godermi istante per istante quei momenti. Un thè caldo, meglio, un lontano parente del thè, annegato nello zucchero mi ridà linfa vitale tanto che esco sul balcone per scattare qualche foto. Sembra di stare su un aereo, tutto dall’alto, l’orizzonte è proprio lontano. Il panorama è da urlo, la vertigine fa novanta, lo spettacolo è da godere in toto.
Al momento di partire assistiamo all’atterraggio di un elicottero, venuto su per portare i viveri di prima necessità, da brividi per il forte vento, ma la grande abilità del pilota ha reso quel gesto degno del migliore manuale.
Riprendiamo la discesa con ritmo sostenuto, che però man mano che ci si avvicina al rifugio Mantova, luogo di ricongiungimento con gli altri compagni, si fa sempre più lento. Il passo pesante, il corpo stanco, lo testa vuota……ma no!!, un piede comincia a fare male, anzi, il mignolo del piede destro comincia a dolere sempre di più.
Maledetto mignolo, mi costringi a fermarmi un paio di volte!!
Giungo al rifugio Mantova che sono esausto e col mignolo dolorante. I compagni, al vedermi prostrato, non tardano a lanciarmi le solite battutine: “sei come un bambino, parti correndo e poi non sapendo gestire le forze arrivi morto!”
Già, sono come un bambino: ho fame di conoscenza, voglio vedere e imparare sempre più cose.
E questo a volte gioca brutti scherzi. La mia bibita “drogata” (Gatorade al limone!) e una stecca di cioccolata mi rimettono in sesto, cosicchè senza particolari problemi ci avviamo verso gli impianti di risalita.
L’arrivo in macchina è, per le mie spalle e per il mio mignolo una liberazione….gli consento di stare all’aria per tutto il viaggio di ritorno!!!
Arrivo a casa davvero contento: l’ascensione è stata molto bella, non perché sono arrivato a 4559m, anche!, ma perché ho goduto di uno spettacolo eccezionale, circondato da una natura apparentemente indifferente, potrei dire gelida!!, ma in realtà viva, che per il solo fatto di esserci e di avermi visto protagonista m’ha dato modo di riconoscere che tutto quanto è dono.
Anche stavolta c’ho provato: ho messo in moto tutte le mie capacità e i miei strumenti per compiere un’ascensione. Aver potuto godere dei profili delle montagne da quella quota è stato un grande dono!!.
Finalmente alle 6 sto meglio: decidiamo di legarci e prepararci. Quando ci avviamo, già molte cordate ci precedono, e purtroppo il passo è sin dall’inizio lento e continuamente interrotto. Superata la parte crepacciata, piuttosto insidiosa, poiché guido la cordata propongo al mio compagno di tenere un passo regolare e più veloce, così da superare molti che ci stanno davanti. Mentre gli altri compagni rimangono indietro, più tardi rinunceranno a salire e ritorneranno indietro, noi cominciamo la nostra marcia a tappe forzate. Siamo inarrestabili, passo dopo passo, superiamo molte cordate e decidiamo di fermarci, qualche minuto, una sola volta su un’area pianeggiante per bagnare le labbra secche e rosicchiare qualcosa. Riprendiamo con il ritmo di prima e così proseguiamo fino a 50 m dall’obiettivo.
All’improvviso il buio davanti a me. La benzina è finita! A secco! A 10 min dalla capanna, un ultimo strappo di 50m, la mia forza motrice è pari a zero. Le gambe ci sono, ma il fiato no. Proseguo molto lentamente, ogni due passi faccio una pausa, il ritmo è davvero lento. Qualche cordata riesce a ricuperarci.
Solo il desiderio di arrivare in cima e la pretesa di vedere il panorama di lassù mi consentono di tirare una gamba dietro l’altra e arrivare a destinazione. Alle 10 siamo alla capanna Margherita, 4559m. Sono sul rifugio più alto d’Europa!!!. C’è molto vento e la temperatura è piuttosto bassa. Ma c’è il sole e questo fa la differenza!
Dopo il primo minuto di affanno, riprendo consapevolezza e comincio a godermi istante per istante quei momenti. Un thè caldo, meglio, un lontano parente del thè, annegato nello zucchero mi ridà linfa vitale tanto che esco sul balcone per scattare qualche foto. Sembra di stare su un aereo, tutto dall’alto, l’orizzonte è proprio lontano. Il panorama è da urlo, la vertigine fa novanta, lo spettacolo è da godere in toto.
Al momento di partire assistiamo all’atterraggio di un elicottero, venuto su per portare i viveri di prima necessità, da brividi per il forte vento, ma la grande abilità del pilota ha reso quel gesto degno del migliore manuale.
Riprendiamo la discesa con ritmo sostenuto, che però man mano che ci si avvicina al rifugio Mantova, luogo di ricongiungimento con gli altri compagni, si fa sempre più lento. Il passo pesante, il corpo stanco, lo testa vuota……ma no!!, un piede comincia a fare male, anzi, il mignolo del piede destro comincia a dolere sempre di più.
Maledetto mignolo, mi costringi a fermarmi un paio di volte!!
Giungo al rifugio Mantova che sono esausto e col mignolo dolorante. I compagni, al vedermi prostrato, non tardano a lanciarmi le solite battutine: “sei come un bambino, parti correndo e poi non sapendo gestire le forze arrivi morto!”
Già, sono come un bambino: ho fame di conoscenza, voglio vedere e imparare sempre più cose.
E questo a volte gioca brutti scherzi. La mia bibita “drogata” (Gatorade al limone!) e una stecca di cioccolata mi rimettono in sesto, cosicchè senza particolari problemi ci avviamo verso gli impianti di risalita.
L’arrivo in macchina è, per le mie spalle e per il mio mignolo una liberazione….gli consento di stare all’aria per tutto il viaggio di ritorno!!!
Arrivo a casa davvero contento: l’ascensione è stata molto bella, non perché sono arrivato a 4559m, anche!, ma perché ho goduto di uno spettacolo eccezionale, circondato da una natura apparentemente indifferente, potrei dire gelida!!, ma in realtà viva, che per il solo fatto di esserci e di avermi visto protagonista m’ha dato modo di riconoscere che tutto quanto è dono.
Anche stavolta c’ho provato: ho messo in moto tutte le mie capacità e i miei strumenti per compiere un’ascensione. Aver potuto godere dei profili delle montagne da quella quota è stato un grande dono!!.
lunedì 20 settembre 2010
Ascensione sulla Cima Beltovo di Dentro
Domenica mattina, 22 agosto, sono salito, da solo, sulla Punta Beltovo di Dentro (3325m) partendo a piedi dal paese di Solda, 1900m.
L’attacco del sentiero è posto dietro la stazione a valle della funivia e si snoda fino al rifugio Milano (2500), nei pressi della stazione a monte della funivia, attraverso una mulattiera che in estate è usata come pista per le mountain bike, mentre in inverno diventa una pista nera di sci.
Sono partito intorno alle 8, e come ormai accade sempre più spesso, vado in montagna senza orologio al polso, per ridurre al minimo la sua influenza sul mio passo.
Il risultato che sto ottenendo è che impiego parecchio meno tempo rispetto a quanto indicato dalle tabelle: sono giunto così al rifugio in meno di un’ora e un quarto. Dopo una breve pausa, per dissetarmi, ho ripreso il cammino attraverso un comodo sentiero che si snoda a fianco delle piste da sci, fino al rifugio Madriccio (2800m), e da qui, sempre attraverso il percorso seguito dalle piste sono giunto in prossimità del Passo Madriccio (3123m).
Con un balzo si giunge sulla cresta che segna il passaggio tra la Val di Solda e la Val Martello. La giornata, tersa e calda, ha offerto un panorama mozzafiato. Brevissima pausa, quindi, sono ripartito alla volta della cima attraverso un sentiero ben segnato ma piuttosto accidentato, dove l’uso delle mani è stato necessario per superare salti e grosse pietre. L’ultimo strappo è piuttosto ripido, ma le difficoltà non sono elevate e quindi facendo attenzione è possibile continuare la salita senza problemi. In appena tre ore sono giunto in cima, dove c’erano già altri escursionisti che mi hanno preceduto. L’ora era ancora presto, appena le undici: avendo programmato di pranzare al rifugio Madriccio avevo tutto il tempo di riposarmi, fare delle foto, e godermi un po’ di sole. Ma soprattutto, ho avuto la possibilità di contemplare le bellezze del creato. Avevo davanti a me, a portata di mano la triade composta dal Gran Zebrù, Zebrù e Ortles. Alla loro sinistra spuntava, bellissimo il Cevedale. Alla mia destra avevo la valle di Solda, di cui scorgevo non solo le persone che si muovevano lungo le strade ma anche i rumori delle poche macchine in circolazione. Voltandomi, sempre sulla destra, avevo davanti gli occhi la cima Vertana (3545m), chissà, magari la prossima tappa in solitaria. Alle mie spalle, la Val Martello, ampia, verde, a me sconosciuta.
Sono rimasto circa quaranta minuti a godermi questo magnifico spettacolo ma non mi sarei più staccato.
Verso le 11,45 ho ripreso lo zaino e le racchette e mi sono diretto al Rifugio Madriccio, dove ho assaporato l’ennesimo strudel, stavolta con l’aggiunta della vaniglia. Il dolce è stato all’altezza della bellezza della giornata, e la radler ha dissetato il mio corpo.
Intorno alle tredici e trenta ho ripreso la via del ritorno ripercorrendo fino a fondo valle lo stesso sentiero dell’andata.
Sono giunto casa, stanco ma non eccessivamente, assai contento e desideroso di raccontare subito alla mia famiglia lo spettacolo di cui avevo beneficiato.
Le foto rendono, in parte, l’idea di quanto ho visto.
L’attacco del sentiero è posto dietro la stazione a valle della funivia e si snoda fino al rifugio Milano (2500), nei pressi della stazione a monte della funivia, attraverso una mulattiera che in estate è usata come pista per le mountain bike, mentre in inverno diventa una pista nera di sci.
Sono partito intorno alle 8, e come ormai accade sempre più spesso, vado in montagna senza orologio al polso, per ridurre al minimo la sua influenza sul mio passo.
Il risultato che sto ottenendo è che impiego parecchio meno tempo rispetto a quanto indicato dalle tabelle: sono giunto così al rifugio in meno di un’ora e un quarto. Dopo una breve pausa, per dissetarmi, ho ripreso il cammino attraverso un comodo sentiero che si snoda a fianco delle piste da sci, fino al rifugio Madriccio (2800m), e da qui, sempre attraverso il percorso seguito dalle piste sono giunto in prossimità del Passo Madriccio (3123m).
Con un balzo si giunge sulla cresta che segna il passaggio tra la Val di Solda e la Val Martello. La giornata, tersa e calda, ha offerto un panorama mozzafiato. Brevissima pausa, quindi, sono ripartito alla volta della cima attraverso un sentiero ben segnato ma piuttosto accidentato, dove l’uso delle mani è stato necessario per superare salti e grosse pietre. L’ultimo strappo è piuttosto ripido, ma le difficoltà non sono elevate e quindi facendo attenzione è possibile continuare la salita senza problemi. In appena tre ore sono giunto in cima, dove c’erano già altri escursionisti che mi hanno preceduto. L’ora era ancora presto, appena le undici: avendo programmato di pranzare al rifugio Madriccio avevo tutto il tempo di riposarmi, fare delle foto, e godermi un po’ di sole. Ma soprattutto, ho avuto la possibilità di contemplare le bellezze del creato. Avevo davanti a me, a portata di mano la triade composta dal Gran Zebrù, Zebrù e Ortles. Alla loro sinistra spuntava, bellissimo il Cevedale. Alla mia destra avevo la valle di Solda, di cui scorgevo non solo le persone che si muovevano lungo le strade ma anche i rumori delle poche macchine in circolazione. Voltandomi, sempre sulla destra, avevo davanti gli occhi la cima Vertana (3545m), chissà, magari la prossima tappa in solitaria. Alle mie spalle, la Val Martello, ampia, verde, a me sconosciuta.
Sono rimasto circa quaranta minuti a godermi questo magnifico spettacolo ma non mi sarei più staccato.
Verso le 11,45 ho ripreso lo zaino e le racchette e mi sono diretto al Rifugio Madriccio, dove ho assaporato l’ennesimo strudel, stavolta con l’aggiunta della vaniglia. Il dolce è stato all’altezza della bellezza della giornata, e la radler ha dissetato il mio corpo.
Intorno alle tredici e trenta ho ripreso la via del ritorno ripercorrendo fino a fondo valle lo stesso sentiero dell’andata.
Sono giunto casa, stanco ma non eccessivamente, assai contento e desideroso di raccontare subito alla mia famiglia lo spettacolo di cui avevo beneficiato.
Le foto rendono, in parte, l’idea di quanto ho visto.
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