“Papà, mi porti con te?”
Questa domanda, ormai ricorre spesso nei dialoghi con i miei figli, soprattutto con il maggiore.
E’ evidente che da parte sua ci sia il desiderio di passare ancora più tempo con me, che non basta più la sera in cui spesso giochiamo a calcio, con la pallina di spugna, lungo il corridoio (per la disperazione di mia moglie!), talvolta guardiamo lo sport in tv, alcune volte giochiamo al pc. Ha bisogno di condividere ancora di più.
E ogni occasione è buona per fare emergere questa necessità.
Così, per esempio, sabato pomeriggio scorso, io lavoravo al computer, mia moglie era intenta a leggere, le mie figlie giocavano in camera e mio figlio tentava di fare gli ultimi compiti di matematica.
Trascorsi dieci minuti, mio figlio comincia a fare i capricci, è distratto, non è capace di concentrarsi e quindi comincia a battere i pugni sul tavolo, dà calci al muro…..
In pochi secondi mia moglie ci impone di prepararci e uscire fuori di casa.
Giunti in cortile, saliti in macchina, mio figlio mi dice: “Papà, non ho voglia di andare in centro, ci facciamo una passeggiata a piedi?”
Un invito a nozze, per un buon camminatore come me!
Così, mentre le donne di casa vanno a fare acquisti in centro, con mio figlio cominciamo una bella passeggiata lungo la ciclabile, quindi attraversiamo in lungo e in largo il paese, infine, senza averlo programmato a priori ci avviciniamo agli impianti sportivi.
Al parcheggio c’erano parecchie auto, per cui ho detto a mio figlio, “vuoi vedere che giocano a basket?”. “Gioca l’Armani Jeans?”, mi domanda, “ma và, lo sai che gioca al Forum”, gli rispondo.
Così entriamo nella palestra e ci sediamo sugli spalti insieme ai tifosi. Giocavano due squadre di ragazzi, circa 15-16 anni, e i tifosi erano prevalentemente i genitori.
Per la cronaca, ha vinto la squadra di casa, dopo un match combattuto e agonistico, e il tifo è stato davvero coinvolgente: trombe, tamburi, fischietti……
Ma in quei quaranta minuti che sono stato a vedere la partita, seduto accanto a mio figlio e un mio amico che nel frattempo ci aveva raggiunto ho pensato a molte cose.
Innanzitutto, cosa mi chiede mio figlio.
La domanda che mio figlio mi pone sempre con maggiore frequenza è la stessa domanda che ho posto io a mio padre quando ero piccolo.
E la mia domanda ha trovato risposta nei tanti momenti che ho vissuto assieme a mio papà, un vero patrimonio per la mia persona.
Alcuni banali esempi: l’abbonamento allo stadio che facemmo per assistere alle partite della squadra del paese, qualche pomeriggio al cinema, le lunghe camminate sul lungomare.
Spesso, tra i sette e i dieci anni, in estate, andavo in ufficio con mio papà (mi sedevo su una scrivania libera del suo ufficio e armato di matita e penne disegnavo!), oppure andavo in trasferta con lui (in questo caso scorazzavo con compostezza lungo gli uffici) e vivevo con profonda attesa il momento del pranzo, circostanza privilegiata del nostro rapporto a due.
E sebbene, poi, per lavoro mio padre era spesso in giro per cui per giorni lo vedevo di sfuggita al mattino o la sera, quei momenti rimangono delle pietre miliari.
E questo, nonostante che, poche volte mio papà era presente alle mie esibizioni di nuoto o difficilmente venisse a guardarmi giocare a tennis, come invece hanno fatto sabato scorso i genitori di quei ragazzi che giocavano a basket.
Chissà, magari tra otto o nove anni, anch’io sarò al posto di quei genitori, a incitare mio figlio mentre si esprime in un’attività sportiva, e sono certo che sarò tra i più scalmanati a fare il tifo.
Nel frattempo, di recente, mio figlio, si è esibito nel suo primo concorso di pianoforte.
Ancora esordiente, ha suonato due brani da solista (di cui uno era l’inno di Mameli), e uno a quattro mani con una sua compagna di corso.
“Ma come mette le mani sul pianoforte! Che leggiadria! Ma da quanti anni suona?”, qualcuno ha chiesto.
Mio figlio s’è meritato i complimenti della giuria e della maestra che senza esitazione ha confermato, davanti ai presenti, la predisposizione privilegiata allo strumento e che se studia può imparare tanto.
La sera, parlandone con mia moglie, ho fatto notare come nostro figlio, inizialmente emozionato e teso, una volta convocato, di fronte allo strumento s’è concentrato e come se si fosse isolato dal “mondo” ha suonato con sicurezza e tranquillità.
La risposta è stata sintetica e chiara: “…non hai capito un c…..!!! Tuo figlio era sereno e sicuro perché sapeva che c’era il suo papà ad ascoltarlo!!!...e questo me lo ha detto lui questo pomeriggio.”
Come genitore, provo una commozione immensa per quello che ho visto, per un dono di cui non sono artefice ma che ho la responsabilità di custodire e stimolare.
Nessun commento:
Posta un commento