Venerdì scorso nella mia azienda è stato offerto da parte del management un aperitivo per festeggiare un traguardo storico e importante.
Da un indagine effettuata nel 2007 a cura del Great Place to Work Institute, l’azienda è stata inserita tra le 100 dove si lavora meglio in Italia (pubblicazione "LE 100 AZIENDE DOVE SI LAVORA MEGLIO", edito a Giugno 2009 da Guerini & Associati e distribuito su scala nazionale insieme ad Italia Oggi).
Questa notizia ha fatto piacere a molti, me compreso, che qui lavoro da 4 anni. Parlando, comunque, coi colleghi, non sono mancati coloro, tanti, che hanno avuto però da ridire mettendo in dubbio la efficacia dei criteri usati per realizzare il sondaggio, qualcuno ha ipotizzato anche la pubblicazione dietro pagamento, tutti concordi sul evidenzare le lacune organizzative che la struttura ha.
Di fronte a queste affermazioni, personalmente, non ho avuto il coraggio di negare ma ho affermato che nonostante questo abbiamo la fortuna di operare in un ambiente che tutto sommato è interessante.
Per l’occasione del momento di festa il direttore del personale ha preparato uno speech di cui mi ha colpito particolarmente un passaggio: “….ciò che davvero contribuisce a creare un ambiente di lavoro sano, allegro e stimolante è l’impegno individuale di ogni persona, che ha un valore unico ed irriducibile. Solo partendo dal riconoscimento e dalla valorizzazione della persona nella sua unicità permette il fiorire di un impegno serio nel lavoro, di un’etica responsabile e vera nei confronti dell’attività che si è chiamati a svolgere, di qualsiasi tipo essa sia…”
Io non so con quale spirito il manager abbia citato tali parole, se perché ci crede veramente o perché abbia preferito “stimolare e conquistare” i collaboratori. Non sta a me giudicare le intenzioni!! So di certo, che le parole che ho udito hanno fatto scattare in me una molla: concordo pienamente con quanto il manager ha detto.
Oggi, in un mondo in crisi, non solo per l’economia che boccheggia, ma per la mancanza di valori di riferimento e di ideali da raggiungere, il valore della persona è il solo valore aggiunto di un’impresa.
L’unico che permette di distinguersi dalla massa.
Il discorso del manager, però, non trova, secondo me, pieno conforto con quanto ho sentito al mattino in occasione di una riunione generale di vendita a cui siamo stati invitati a partecipare tutti coloro che operiamo in ambito commerciale.
In una delle slides, parlando di azioni da attuare per contrastare la crisi economica, si diceva che bisogna puntare sull’Innovazione, in particolare sull’innovazione dei sistemi di vendita, sugli strumenti per rendere più efficiente la struttura, sull’accorpamento di settori e reparti, sulla ottimizzazione dei criteri di gestione dei clienti, sulla formazione sui processi e sulle tecniche…..
Nulla da obiettare, se c’è la crisi, un rimedio bisogna trovarlo perchè si possa almeno sopravvivere. Non mi permetto di criticare quanto i manager con intelligenza e responsabilità hanno pensato e organizzato, ma cerco di andare oltre.
L’uomo, dov’è l’uomo?
Un po’ di tempo fa ho letto un libro curato dal prof. Giorgio Vittadini dal titolo "Il capitale umano, la ricchezza dell’Europa” in cui mi ha colpito un passaggio che, secondo me, va un po’ più in la di quanto ho sentito in occasione della riunione di venerdì.
A pag. 137 di tale libro si dice: "Il principale soggetto dell’innovazione è dunque la persona. Più delle conoscenze, comunque necessarie, abbiamo visto che conta la voglia di rischiare, il coinvolgimento personale con il lavoro, un rapporto positivo con la realtà: in altre parole, quello che è in gioco, innanzitutto è un tipo umano. La questione decisiva per l’innovazione è perciò l’educazione, prima e più della formazione".
L’uomo e le sue capacità al centro. Più delle capacità operative, la libertà di esprimere il proprio desiderio. Perché, per me, è il desiderio che accende il motore dell’uomo.
Sempre nello stesso libro, è citata una frase di Monsignor Giussani, a pag.66: "La libertà è esigenza, desiderio, tensione all’infinito. Ma l’infinito, questo desiderio infinito che abbiamo, si realizza attraverso i bisogni quotidiani in cui la propria sete si articola e si concreta. I bisogni quotidiani ci sollecitano ai passi verso l’infinito. Il bisogno della cosa particolare è la modalità con cui il destino, l’infinito ci tocca, e noi reagiamo al desiderio della cosa particolare; e questo reagire – se è fatto da un io impegnato e non troppo “modesto”, non teso al comodo – affronta naturalmente il bisogno con una certa sistematicità".
Di fronte a quanto riportato sopra, pertanto, la mia reazione è che occorre, sì, attuare delle azioni concrete per invertire la tendenza economica, ma lo sguardo dove è rivolto?
Per questo mi ha colpito e affascinato quanto detto dal mio manager: nella mia azienda vogliamo, possiamo e dobbiamo raggiungere certi obiettivi senza trascurare però che la quotidianità è la circostanza attraverso cui ognuno di noi può e deve trovare compimento al proprio desiderio di felicità.
venerdì 24 luglio 2009
giovedì 16 luglio 2009
Chi sono gli Umpipito?
Così come è esistita la dinastia dei Kennedy, così come ci sono stati gli Agnelli e ora ci sono i Berlusconi, i Benetton e così via….esistono anche gli Umpipito, nota dinastia siciliana.
Non sono alla ribalta delle cronache mondane e non appartengono alla classe del capitalismo italiano, ma ci sono e in passato sono stati molto conosciuti nel loro ambiente.
Ma chi sono?
Conosciamoli un po’ meglio!!
I capostipite si chiamano Chele (Michele), Chilù (Michele), Pepè (Giuseppe) e Maurì (Maurizio).
Se ci sono tre elementi fondamentali che hanno caratterizzato gli Umpipito sin dalla loro “concezione” sono stati: l’unità tra di loro, la simpatia e l’allegria.
Il primo elemento, è quello che da sempre ha colpito e che ancora oggi si rende evidente quando i quattro capostipite si incontrano. Cosa determina e come si è manifestata l’unità tra loro? E’ molto difficile spiegarlo, occorrono almeno 25 anni di storia per cercare di capirlo.
Una cosa si intuisce: non è il frutto di sforzi e di capacità proprie, ma è come se la loro unità fosse stata donata a priori e assecondata nel tempo.
Se l’unità è il motore, la simpatia è la carrozzeria e gli interni.
Nella foto, gli Umpipito (in realtà sono presenti solo i Pipito, perché gli Um erano assenti per indisposizioni familiari!!)
che li ha portati negli anni a ricevere inviti e proposte, da amici e non, perché si esibissero.
Ne frattempo, crescendo, ognuno ha intrapreso una sua strada professionale, e oggi sono ingegneri, architetti e dottori in agraria. Due di loro sono sposati con figli, un terzo a brevissimo convolerà a nozze, non si hanno invece notizie certe (purtroppo c’è la legge sulla privacy!!) sul quarto socio….ma voci di corridoio dicono che anche per lui il solco è segnato!
Molti paparazzi li pedinano alla ricerca di scoop e foto indiscrete, ma i loro palazzi, le loro tenute e i loro yacht sono più inviolabili di una fortezza blindata.
Pur essendo una dinastia solida, nei valori e nelle tradizioni, non hanno avuto la possibilità di sperimentare tale capacità in ambito professionale, pur avendolo desiderato e progettato a tavolino. Ma si sa, come dicevano i nonni: “L’uomo propone, Dio dispone!”.
Così, oggi, gli Umpipito sono sparsi per l’Italia, dove hanno messo radici nei posti più estremi dello stivale, legati sempre da un filo invisibile, come a dire, la geografia non è un vincolo ma una circostanza!!Siamo sicuri che non avete mai incontrato alcuno della dinastia degli Umpipito?
Così come è esistita la dinastia dei Kennedy, così come ci sono stati gli Agnelli e ora ci sono i Berlusconi, i Benetton e così via….esistono anche gli Umpipito, nota dinastia siciliana.
Non sono alla ribalta delle cronache mondane e non appartengono alla classe del capitalismo italiano, ma ci sono e in passato sono stati molto conosciuti nel loro ambiente.
Ma chi sono?
Conosciamoli un po’ meglio!!
I capostipite si chiamano Chele (Michele), Chilù (Michele), Pepè (Giuseppe) e Maurì (Maurizio).
Se ci sono tre elementi fondamentali che hanno caratterizzato gli Umpipito sin dalla loro “concezione” sono stati: l’unità tra di loro, la simpatia e l’allegria.
Il primo elemento, è quello che da sempre ha colpito e che ancora oggi si rende evidente quando i quattro capostipite si incontrano. Cosa determina e come si è manifestata l’unità tra loro? E’ molto difficile spiegarlo, occorrono almeno 25 anni di storia per cercare di capirlo.
Una cosa si intuisce: non è il frutto di sforzi e di capacità proprie, ma è come se la loro unità fosse stata donata a priori e assecondata nel tempo.
Se l’unità è il motore, la simpatia è la carrozzeria e gli interni.
Nella foto, gli Umpipito (in realtà sono presenti solo i Pipito, perché gli Um erano assenti per indisposizioni familiari!!)
si mostrano nel loro tipico look da festaioli mondani, parties spesso organizzati nelle loro tenute di campagna o nei loro palazzi di rappresentanza.
Sono una dinastia assai discreta, ma che vivono una vita molto ricca di rapporti umani. Sin da piccoli sono stati caratterizzati da una piacevole allegria, il metodo con cui affrontano le circostanze quotidiane, che hanno coinvolto chi stava con loro.
Anche molto burloni, spesso tenevano banco alle feste o comunque non passavano inosservati nelle occasioni popolari. Pessimi cantori, capaci latin lovers (un numero imprecisato di ragazze alla loro corte!), erano molto abili nel teatro di “improvvisazione” in modo particolare in ambito satirico (nella foto “Il mendicante in abito da sera” e “Il pianista e gli uditori…di confine!!”),
Sono una dinastia assai discreta, ma che vivono una vita molto ricca di rapporti umani. Sin da piccoli sono stati caratterizzati da una piacevole allegria, il metodo con cui affrontano le circostanze quotidiane, che hanno coinvolto chi stava con loro.
Anche molto burloni, spesso tenevano banco alle feste o comunque non passavano inosservati nelle occasioni popolari. Pessimi cantori, capaci latin lovers (un numero imprecisato di ragazze alla loro corte!), erano molto abili nel teatro di “improvvisazione” in modo particolare in ambito satirico (nella foto “Il mendicante in abito da sera” e “Il pianista e gli uditori…di confine!!”),
che li ha portati negli anni a ricevere inviti e proposte, da amici e non, perché si esibissero.
Ne frattempo, crescendo, ognuno ha intrapreso una sua strada professionale, e oggi sono ingegneri, architetti e dottori in agraria. Due di loro sono sposati con figli, un terzo a brevissimo convolerà a nozze, non si hanno invece notizie certe (purtroppo c’è la legge sulla privacy!!) sul quarto socio….ma voci di corridoio dicono che anche per lui il solco è segnato!
Molti paparazzi li pedinano alla ricerca di scoop e foto indiscrete, ma i loro palazzi, le loro tenute e i loro yacht sono più inviolabili di una fortezza blindata.
Pur essendo una dinastia solida, nei valori e nelle tradizioni, non hanno avuto la possibilità di sperimentare tale capacità in ambito professionale, pur avendolo desiderato e progettato a tavolino. Ma si sa, come dicevano i nonni: “L’uomo propone, Dio dispone!”.
Così, oggi, gli Umpipito sono sparsi per l’Italia, dove hanno messo radici nei posti più estremi dello stivale, legati sempre da un filo invisibile, come a dire, la geografia non è un vincolo ma una circostanza!!Siamo sicuri che non avete mai incontrato alcuno della dinastia degli Umpipito?
domenica 12 luglio 2009
Ascensione sul Legnone…mamma mia che legnata!
Domenica scorsa con due amici, Richy e Randa,
ho raggiunto la vetta del Monte Legnone. Di nome e di fatto! Abbiamo superato un dislivello di 1200 m, partendo dai 1400 del “campo base” fino ai 2610 m e oltre della vetta. Il tutto in appena 2h e 45 min. E’ stata una bella gita, per la tipologia del percorso con le sue difficoltà, per il gruppo di amici con cui ho affrontato l’avventura e per le condizioni del tempo che sono state abbastanza clementi nei ns. confronti.
Lo spirito iniziale è quello delle grandi occasioni: raggiungere la meta e affrontare il sentiero con passo regolare modulando la velocità in funzione della pendenza e del terreno. Uno sguardo alla vetta da raggiungere…mamma mia come è lontana, riusciremo a farcela?....quindi alle 9,15 si parte. Guarderò la vetta solo un’altra volta, per capire a che punto del percorso mi trovo, poi come sempre quando vado in montagna mi concentro sul sentiero che mi sta davanti, per evitare passi falsi o maldestri. Cammino con la certezza che la meta c’è, e che esiste la strada per arrivarci: questo mi da sostegno nei momenti di maggiore fatica. Ma il panorama è incantevole, e quindi spesso alzo l’occhio ad ammirare quanto la natura mi pone di fronte. Come antipasto, dopo pochi minuti, vediamo uno scorcio della Valtellina all’altezza di Colico
Subito dopo il primo incontro ravvicinato: un gregge di capre ci sbarra il percorso e una di queste incuriosite si avvicina nella speranza di essere fotografata
…aspettaci che prima o poi arriviamo anche da te!
Man mano che saliamo il percorso comincia a farsi più duro, sulle carte è segnato di tipo 1a, ovvero è necessario l’udi mani per salire. Fino a metà percorso, dopo circa 1h e 30 min
Che vertigine!
Mi volto e vedo chiaramente la confluenza dell’ Adda con il lago di Como. Il lago accoglie il fiume fin dentro il suo bacino, ma che contrasto di colori! Il lago è scuro perché profondo, con l’acqua “stagnante” e melmosa. Il fiume ha un colore chiaro perché poco profondo, con le acque provenienti dai ghiacciai e turbolente per la velocità di scorrimento che favorisce il trasporto di materiale solido disciolto
decidiamo di scendere.
Sono sempre stato convinto che in montagna la salita è più semplice della discesa, soprattutto se il percorso è roccioso e con ferrate. La dimostrazione l’ho avuta ieri: tra qualche risata e qualche botta sulle ginocchia siamo riusciti a superare gli ostacoli maggiori, quindi con le gambe quasi di legno abbiamo raggiunto una malga per una breve sosta dove abbiamo acquistato del buon formaggio. Ma poco prima abbiamo avuto un ultimo incontro ravvicinato con un animale indigeno: un bellissimo camoscio. Quest’ultimo, a differenza delle capre, non era proprio contento di farsi fotografare, anzi si muoveva in modo circospetto e ci scrutava per capire le nostre intenzioni. Noi, dal far nostro, con passo felpato (in un sentiero roccioso!!) abbiamo cercato di avvicinarci per immortalarlo…e siamo arrivati a un compromesso!!
ho raggiunto la vetta del Monte Legnone. Di nome e di fatto! Abbiamo superato un dislivello di 1200 m, partendo dai 1400 del “campo base” fino ai 2610 m e oltre della vetta. Il tutto in appena 2h e 45 min. E’ stata una bella gita, per la tipologia del percorso con le sue difficoltà, per il gruppo di amici con cui ho affrontato l’avventura e per le condizioni del tempo che sono state abbastanza clementi nei ns. confronti.
Lo spirito iniziale è quello delle grandi occasioni: raggiungere la meta e affrontare il sentiero con passo regolare modulando la velocità in funzione della pendenza e del terreno. Uno sguardo alla vetta da raggiungere…mamma mia come è lontana, riusciremo a farcela?....quindi alle 9,15 si parte. Guarderò la vetta solo un’altra volta, per capire a che punto del percorso mi trovo, poi come sempre quando vado in montagna mi concentro sul sentiero che mi sta davanti, per evitare passi falsi o maldestri. Cammino con la certezza che la meta c’è, e che esiste la strada per arrivarci: questo mi da sostegno nei momenti di maggiore fatica. Ma il panorama è incantevole, e quindi spesso alzo l’occhio ad ammirare quanto la natura mi pone di fronte. Come antipasto, dopo pochi minuti, vediamo uno scorcio della Valtellina all’altezza di Colico
Subito dopo il primo incontro ravvicinato: un gregge di capre ci sbarra il percorso e una di queste incuriosite si avvicina nella speranza di essere fotografata
….desiderio soddisfatto….invierò al padrone la foto della sua capra!!
Appena voltiamo le spalle ci accorgiamo della Grigna
Appena voltiamo le spalle ci accorgiamo della Grigna
Man mano che saliamo il percorso comincia a farsi più duro, sulle carte è segnato di tipo 1a, ovvero è necessario l’udi mani per salire. Fino a metà percorso, dopo circa 1h e 30 min
le mani sono state al loro posto,.....ma il bello deve ancora arrivare,....perché vedo il sentiero in cresta che mi toccherà affrontare a breve
Mi volto e vedo chiaramente la confluenza dell’ Adda con il lago di Como. Il lago accoglie il fiume fin dentro il suo bacino, ma che contrasto di colori! Il lago è scuro perché profondo, con l’acqua “stagnante” e melmosa. Il fiume ha un colore chiaro perché poco profondo, con le acque provenienti dai ghiacciai e turbolente per la velocità di scorrimento che favorisce il trasporto di materiale solido disciolto
Arrivati alla Cà de Legn incontriamo un'altra capra indigena….anch’essa smaniosa di farsi fotografare….desiderio accolto!!
Ma quanto manca alla vetta? Ecco ci siamo quasi….un’ ultimo strappo e saremo in cima!!
Alle 12 arriviamo in cima e rivolti alla Croce ringraziamo e affidiamo la giornata
quindi si tirano fuori i panini e le bibite per godersi un po’ di meritato riposo circondati da uno spettacolo indescrivibile. Da un lato la Valtellina con il Monte Badile e il Gruppo del Disgrazia
in fondo alla stessa valle si intravede tra le nuvole lo Stelvio
alle nostre spalle il lago di Como, uno scorcio del lago di Lugano e le alpi Svizzere
Ma in montagna il tempo, si sa, è instabile, così i nuvoloni si addensano e la nebbia cala…per qualche minuto sembra di stare sospesi nel vuoto…..tanto che sebbene le previsioni dicevano tempo stabile per tutto il giorno, dopo quasi un’ora di permanenza sulla vetta e qualche foto scattata
decidiamo di scendere.
Sono sempre stato convinto che in montagna la salita è più semplice della discesa, soprattutto se il percorso è roccioso e con ferrate. La dimostrazione l’ho avuta ieri: tra qualche risata e qualche botta sulle ginocchia siamo riusciti a superare gli ostacoli maggiori, quindi con le gambe quasi di legno abbiamo raggiunto una malga per una breve sosta dove abbiamo acquistato del buon formaggio. Ma poco prima abbiamo avuto un ultimo incontro ravvicinato con un animale indigeno: un bellissimo camoscio. Quest’ultimo, a differenza delle capre, non era proprio contento di farsi fotografare, anzi si muoveva in modo circospetto e ci scrutava per capire le nostre intenzioni. Noi, dal far nostro, con passo felpato (in un sentiero roccioso!!) abbiamo cercato di avvicinarci per immortalarlo…e siamo arrivati a un compromesso!!
Infine, abbiamo ancora incrociato una marmotta, parola di Richy….unico ad averla vista e inseguita, non sappiamo se per davvero o sotto l’effetto delle visioni per stanchezza!!!….e una vipera a distanza….meno male altrimenti per la paura avrei raggiunto il campo base con due salti.
Alle 16 eravamo di nuovo alla nostra auto.
Alle 16 eravamo di nuovo alla nostra auto.
Abbiamo concluso la passeggiata che eravamo stanchi, quasi sfatti, qualcuno con un pò di dolori ai piedi, ma tutti e tre abbronzati e soprattutto soddisfatti e grati per avere potuto godere di tale giornata e di uno spettacolo così bello!!
giovedì 9 luglio 2009
Di Mungibeddu tutti semu figghi....
“Di Mungibeddu tutti semu figghi…..”
Così recita la prima riga di una nota canzone della tradizione siciliana.
Per chi come me ha vissuto per oltre 25 anni alle pendici dell’ Etna, conosciuta anche come Mungibeddu (che deriva da due parole, una latina Mons e una araba Gibel, che significano Monte Monte), o ‘A Muntagna (in particolare per i catanesi), questo vulcano è qualcosa di carnale, parte della propria esistenza.
Ho molti ricordi legati all’Etna, sin dalla prima infanzia, quando con i miei genitori andavamo in giornata a fare la gita in montagna. Ma sono gli anni della gioventù e dell’Università che mi evocano i momenti più belli.
Già negli anni del liceo, in estate, era tradizione, con alcuni amici e compagni di scuola, fare il giro dell’Etna a piedi attraverso i sentieri montani: si camminava di notte per via della frescura, guidati dalla luna e dalla luce delle torce elettriche. Carichi dello zaino con viveri e giacche camminavamo per due giorni, intonando spesso canti alpini o fischiettando nenie della tradizione siciliana.
Ma l’amore passionale per il vulcano è iniziato a giugno del 1990, quando, con alcuni compagni di scuola, accompagnati da un mio amico fisico astronomico dell’Università di Catania siamo andati all’osservatorio di Serra La Nave, sull’Etna, per guardare da vicino la luna, che quella sera si è mostrata in tutta la sua bellezza. Subito dopo, il mio amico ci ha presentato la volta celeste guidandoci passo dopo passo nel percorso di conoscenza delle stelle e delle costellazioni: la semplicità con cui ci muoveva era superiore al miglior vigile urbano che spiega la toponomastica della sua città. L’ Universo infinito quella sera era diventato amico, ciò che fino ad allora per me era ignoto, semplicemente un ammasso di stelle senza nome e origine, aveva una identità. Troppo bello quello che abbiamo visto, tanto che per molti giorni con i compagni ne abbiamo parlato senza poter fare a meno la sera di alzare lo sguardo e guardare la volta celeste. Di recente l’esperienza più spettacolare l’ho vissuta nella agosto del 1998 quando l’Etna era in piena attività stromboliana.
Ero da poco tornato a casa in vacanza e alcuni amici mi proposero di fare una passeggiata sul vulcano nel tentativo di avvicinarsi il più possibile al cratere e passare la notte lì. Anche in questo caso tra noi c’era un amico che lavora come vulcanologo presso l’istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania. Questo ci ha permesso di superare i limiti imposti per motivi di sicurezza dalle Autorità preposte. La giornata, a Catania, era molto calda (circa 38 gradi) ma già a 2000 m, al Rifugio Sapienza, il vento forte rendeva la temperatura piuttosto frizzante. Man mano che salivamo di quota il vento diventava sempre più freddo e fastidioso da sopportare. Però, il vento aveva spazzato via tutto lo smog e l’afa: vedevamo buona parte della Sicilia orientale, oltre Siracusa, e la Piana di Catania e i paesi etnei e la stessa città di Catania sembravano a portata di mano. Lo sfavillio delle luci della città a contrasto con l’orizzonte blu scuro del mare rendevano l’ambiente incantevole. Giunti a quota 2800 circa, all’improvviso l’Etna ha dato spettacolo, il meglio di sé, lanciando in aria lapilli e lingue di fuoco con continuità e senza interruzione. Tutto a poca distanza da noi, fantastico! Purtroppo, per ragioni di sicurezza e per il freddo insopportabile siamo stati costretti a tornare indietro al chiaror di luna.
Nell’agosto del 2001 un altro momento unico: l’Etna aveva da poco concluso una lunga attività eruttiva che aveva sfiorato per l’ennesima volta il rifugio Sapienza, lambito dal letto di lava. Con la mia fidanzata e due amici abbiamo percorso una parte della colata, risalendola e costeggiandola sulla destra. In verità mi sono spinto oltre, perché sono salito sulla colata e mi sono seduto al centro. La lava dell’Etna ha una caratteristica tipica: si raffredda velocemente in superficie dando origine a fenomeni di ingrottamento entro cui scorre la lava calda. La sensazione di sentire sotto di me un mondo in movimento era davvero eccezionale: sembrava di stare seduto su un ammasso di bottiglie di vetro che muovendosi si frantumavano!! In quel mondo apparentemente infernale, con il fumo del calore che usciva da tutti i pori delle rocce, provavo comunque una forte sensazione di benessere e tranquillità…forse perché le chiappe stavano calde….o forse perché c’era un silenzio assordante con il sottofondo delle rocce in movimento!!
Beh, se l’Inferno fosse così…non oso immaginare cosa sarà il Paradiso.
Così recita la prima riga di una nota canzone della tradizione siciliana.
Per chi come me ha vissuto per oltre 25 anni alle pendici dell’ Etna, conosciuta anche come Mungibeddu (che deriva da due parole, una latina Mons e una araba Gibel, che significano Monte Monte), o ‘A Muntagna (in particolare per i catanesi), questo vulcano è qualcosa di carnale, parte della propria esistenza.
Ho molti ricordi legati all’Etna, sin dalla prima infanzia, quando con i miei genitori andavamo in giornata a fare la gita in montagna. Ma sono gli anni della gioventù e dell’Università che mi evocano i momenti più belli.
Già negli anni del liceo, in estate, era tradizione, con alcuni amici e compagni di scuola, fare il giro dell’Etna a piedi attraverso i sentieri montani: si camminava di notte per via della frescura, guidati dalla luna e dalla luce delle torce elettriche. Carichi dello zaino con viveri e giacche camminavamo per due giorni, intonando spesso canti alpini o fischiettando nenie della tradizione siciliana.
Ma l’amore passionale per il vulcano è iniziato a giugno del 1990, quando, con alcuni compagni di scuola, accompagnati da un mio amico fisico astronomico dell’Università di Catania siamo andati all’osservatorio di Serra La Nave, sull’Etna, per guardare da vicino la luna, che quella sera si è mostrata in tutta la sua bellezza. Subito dopo, il mio amico ci ha presentato la volta celeste guidandoci passo dopo passo nel percorso di conoscenza delle stelle e delle costellazioni: la semplicità con cui ci muoveva era superiore al miglior vigile urbano che spiega la toponomastica della sua città. L’ Universo infinito quella sera era diventato amico, ciò che fino ad allora per me era ignoto, semplicemente un ammasso di stelle senza nome e origine, aveva una identità. Troppo bello quello che abbiamo visto, tanto che per molti giorni con i compagni ne abbiamo parlato senza poter fare a meno la sera di alzare lo sguardo e guardare la volta celeste. Di recente l’esperienza più spettacolare l’ho vissuta nella agosto del 1998 quando l’Etna era in piena attività stromboliana.
Ero da poco tornato a casa in vacanza e alcuni amici mi proposero di fare una passeggiata sul vulcano nel tentativo di avvicinarsi il più possibile al cratere e passare la notte lì. Anche in questo caso tra noi c’era un amico che lavora come vulcanologo presso l’istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania. Questo ci ha permesso di superare i limiti imposti per motivi di sicurezza dalle Autorità preposte. La giornata, a Catania, era molto calda (circa 38 gradi) ma già a 2000 m, al Rifugio Sapienza, il vento forte rendeva la temperatura piuttosto frizzante. Man mano che salivamo di quota il vento diventava sempre più freddo e fastidioso da sopportare. Però, il vento aveva spazzato via tutto lo smog e l’afa: vedevamo buona parte della Sicilia orientale, oltre Siracusa, e la Piana di Catania e i paesi etnei e la stessa città di Catania sembravano a portata di mano. Lo sfavillio delle luci della città a contrasto con l’orizzonte blu scuro del mare rendevano l’ambiente incantevole. Giunti a quota 2800 circa, all’improvviso l’Etna ha dato spettacolo, il meglio di sé, lanciando in aria lapilli e lingue di fuoco con continuità e senza interruzione. Tutto a poca distanza da noi, fantastico! Purtroppo, per ragioni di sicurezza e per il freddo insopportabile siamo stati costretti a tornare indietro al chiaror di luna.
Nell’agosto del 2001 un altro momento unico: l’Etna aveva da poco concluso una lunga attività eruttiva che aveva sfiorato per l’ennesima volta il rifugio Sapienza, lambito dal letto di lava. Con la mia fidanzata e due amici abbiamo percorso una parte della colata, risalendola e costeggiandola sulla destra. In verità mi sono spinto oltre, perché sono salito sulla colata e mi sono seduto al centro. La lava dell’Etna ha una caratteristica tipica: si raffredda velocemente in superficie dando origine a fenomeni di ingrottamento entro cui scorre la lava calda. La sensazione di sentire sotto di me un mondo in movimento era davvero eccezionale: sembrava di stare seduto su un ammasso di bottiglie di vetro che muovendosi si frantumavano!! In quel mondo apparentemente infernale, con il fumo del calore che usciva da tutti i pori delle rocce, provavo comunque una forte sensazione di benessere e tranquillità…forse perché le chiappe stavano calde….o forse perché c’era un silenzio assordante con il sottofondo delle rocce in movimento!!
Beh, se l’Inferno fosse così…non oso immaginare cosa sarà il Paradiso.
Il prossimo obiettivo è raggiungere il cratere Centrale (3263 mslm), a piedi: sto cercando compagni d’avventura per affrontare questa nuova esperienza senza dubbio affascinante e stimolante
. ;-)
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