martedì 30 novembre 2010

Papà, mi porti con te?

Papà, mi porti con te?”
Questa domanda, ormai ricorre spesso nei dialoghi con i miei figli, soprattutto con il maggiore.
E’ evidente che da parte sua ci sia il desiderio di passare ancora più tempo con me, che non basta più la sera in cui spesso giochiamo a calcio, con la pallina di spugna, lungo il corridoio (per la disperazione di mia moglie!), talvolta guardiamo lo sport in tv, alcune volte giochiamo al pc. Ha bisogno di condividere ancora di più.
E ogni occasione è buona per fare emergere questa necessità.
Così, per esempio, sabato pomeriggio scorso, io lavoravo al computer, mia moglie era intenta a leggere, le mie figlie giocavano in camera e mio figlio tentava di fare gli ultimi compiti di matematica.
Trascorsi dieci minuti, mio figlio comincia a fare i capricci, è distratto, non è capace di concentrarsi e quindi comincia a battere i pugni sul tavolo, dà calci al muro…..
In pochi secondi mia moglie ci impone di prepararci e uscire fuori di casa.
Giunti in cortile, saliti in macchina, mio figlio mi dice: “Papà, non ho voglia di andare in centro, ci facciamo una passeggiata a piedi?”
Un invito a nozze, per un buon camminatore come me!
Così, mentre le donne di casa vanno a fare acquisti in centro, con mio figlio cominciamo una bella passeggiata lungo la ciclabile, quindi attraversiamo in lungo e in largo il paese, infine, senza averlo programmato a priori ci avviciniamo agli impianti sportivi.
Al parcheggio c’erano parecchie auto, per cui ho detto a mio figlio, “vuoi vedere che giocano a basket?”. “Gioca l’Armani Jeans?”, mi domanda, “ma và, lo sai che gioca al Forum”, gli rispondo.
Così entriamo nella palestra e ci sediamo sugli spalti insieme ai tifosi. Giocavano due squadre di ragazzi, circa 15-16 anni, e i tifosi erano prevalentemente i genitori.
Per la cronaca, ha vinto la squadra di casa, dopo un match combattuto e agonistico, e il tifo è stato davvero coinvolgente: trombe, tamburi, fischietti……
Ma in quei quaranta minuti che sono stato a vedere la partita, seduto accanto a mio figlio e un mio amico che nel frattempo ci aveva raggiunto ho pensato a molte cose.
Innanzitutto, cosa mi chiede mio figlio.
La domanda che mio figlio mi pone sempre con maggiore frequenza è la stessa domanda che ho posto io a mio padre quando ero piccolo.
E la mia domanda ha trovato risposta nei tanti momenti che ho vissuto assieme a mio papà, un vero patrimonio per la mia persona.
Alcuni banali esempi: l’abbonamento allo stadio che facemmo per assistere alle partite della squadra del paese, qualche pomeriggio al cinema, le lunghe camminate sul lungomare.
Spesso, tra i sette e i dieci anni, in estate, andavo in ufficio con mio papà (mi sedevo su una scrivania libera del suo ufficio e armato di matita e penne disegnavo!), oppure andavo in trasferta con lui (in questo caso scorazzavo con compostezza lungo gli uffici) e vivevo con profonda attesa il momento del pranzo, circostanza privilegiata del nostro rapporto a due.
E sebbene, poi, per lavoro mio padre era spesso in giro per cui per giorni lo vedevo di sfuggita al mattino o la sera, quei momenti rimangono delle pietre miliari.
E questo, nonostante che, poche volte mio papà era presente alle mie esibizioni di nuoto o difficilmente venisse a guardarmi giocare a tennis, come invece hanno fatto sabato scorso i genitori di quei ragazzi che giocavano a basket.
Chissà, magari tra otto o nove anni, anch’io sarò al posto di quei genitori, a incitare mio figlio mentre si esprime in un’attività sportiva, e sono certo che sarò tra i più scalmanati a fare il tifo.
Nel frattempo, di recente, mio figlio, si è esibito nel suo primo concorso di pianoforte.
Ancora esordiente, ha suonato due brani da solista (di cui uno era l’inno di Mameli), e uno a quattro mani con una sua compagna di corso.
“Ma come mette le mani sul pianoforte! Che leggiadria! Ma da quanti anni suona?”, qualcuno ha chiesto.
Mio figlio s’è meritato i complimenti della giuria e della maestra che senza esitazione ha confermato, davanti ai presenti, la predisposizione privilegiata allo strumento e che se studia può imparare tanto.
La sera, parlandone con mia moglie, ho fatto notare come nostro figlio, inizialmente emozionato e teso, una volta convocato, di fronte allo strumento s’è concentrato e come se si fosse isolato dal “mondo” ha suonato con sicurezza e tranquillità.
La risposta è stata sintetica e chiara: “…non hai capito un c…..!!! Tuo figlio era sereno e sicuro perché sapeva che c’era il suo papà ad ascoltarlo!!!...e questo me lo ha detto lui questo pomeriggio.”
Come genitore, provo una commozione immensa per quello che ho visto, per un dono di cui non sono artefice ma che ho la responsabilità di custodire e stimolare.

giovedì 4 novembre 2010

Io e la caritativa

Da due anni faccio caritativa alla Caritas, ogni quindici giorni il sabato mattina.
Cosa è la caritativa?
Mons. Luigi Giussani (1922 – 2005), fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, nel libretto “Il senso della Caritativa” la spiega così:
“Quando c'è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell'esistenza.
Noi andiamo in «caritativa» per soddisfare questa esigenza.
…….
Quanto più noi viviamo questa esigenza e questo dovere, tanto più realizziamo noi stessi; comunicare agli altri ci dà proprio l'esperienza di completare noi stessi. Tanto è vero che, se non riusciamo a dare, ci sentiamo diminuiti. Interessarci degli altri, comunicarci agli altri, ci fa compiere il supremo, anzi unico, dovere della vita, che è realizzare noi stessi, compiere noi stessi.
Noi andiamo in «caritativa» per imparare a compiere questo dovere.
……
Ma Cristo ci ha fatto capire il perché profondo di tutto ciò svelandoci la legge ultima dell'essere e della vita: la carità. La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l'essere degli altri, è mettere in comune se stessi. Solo Gesù Cristo ci dice tutto questo, perché Egli sa cos'è ogni cosa, che cos'è Dio da cui nasciamo, che cos'è l'Essere.
Tutta la parola «carità» riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra situazione, ma si è fatto misero come noi, ha «condiviso» la nostra nullità.
Noi andiamo in «caritativa» per imparare a vivere come Cristo.”


Questi tre punti sono alla base della mia scelta di aderire alla caritativa, gesto che ho compiuto fedelmente durante gli anni di liceo, quando facevo studiare alcuni ragazzi delle scuole medie di un quartiere degradato della mia città.
Dopo molti anni in cui, per motivi di lavoro, di famiglia, per noia, distrazione e mancanza di ragioni chiare non ho più fatto caritativa, ho accettato di riprendere grazie al rapporto di amicizia con alcune persone.
Mi è stato proposto di dare una mano alla Caritas del mio paese, che si occupa tra l’altro della distribuzione del pacco alimentare alle famiglie bisognose.
Ogni quindici giorni, insieme ad altri volontari, ci vediamo per sistemare gli scaffali pieni di alimenti, riempire le borse e consegnarle alle persone povere del mio paese.
Come compito mi è stato chiesto di preparare le borse che altri volontari ritirano all’ingresso e poi riconsegnano piene ai bisognosi. L’ambiente è molto semplice e vivo, la maggior parte dei volontari sono donne ultra sessantenni e uomini in pensione e rappresentano il fulcro dell’attività. Le nonnine, come simpaticamente le chiamiamo, sono vispe e attive, come se le avessero caricate a molla…non si fermano un istante. Hanno proprio una passione per l’umano e per il servizio che svolgono che traspare a occhio nudo.
Ho provato a domandare più volte cosa le spingesse a fare il gesto della Caritas, ma la risposta ottenuta non mi ha soddisfatto molto. Però basta guardarle in azione per capire!!
Nel frattempo, prendo sempre più coscienza che attraverso quel semplice gesto di mettere il latte, la pasta, il formaggio, il pane o qualcos’altro dentro le borse, dò la possibilità a qualcuno di soddisfare un bisogno. E questo passa attraverso la soddisfazione di un mio bisogno.
Sempre più spesso, oltre che riempire le buste le consegno direttamente alle persone. Ci sono pochi anziani, a cui il pacco viene recapitato a casa, molte giovani mamme slave o musulmane, tanti italiani. La consegna della borsa dura un istante, il tempo che dalla mia mano passi nella mano dell’altro, ma un istante che vale infinito.
Cerco sempre lo sguardo delle persone che incontro.
Spesso incrocio occhi semplici, sorrisi limpidi e volti di persone sofferenti. Ma spesso lieti!
Nell’esperienza che faccio tocco con mano cosa sia l’uomo mendicante, l’uomo bisognoso di tutto, l’uomo mendicante di Cristo.
Cristo in quel momento passa attraverso il bisogno del latte, dei pelati, della farina……
Il “Grazie” con cui quasi tutti accettano il pacco alimentare e mi salutano, mi rende ancora più familiare con loro e con il loro bisogno da soddisfare.
La cosa che più mi colpisce è la letizia e la serenità che mi accompagna in questo gesto, non perché sia un’opera buona, ma perché donato e offerto totalmente a Dio. E il primo beneficiario sono io.