lunedì 29 marzo 2010

Libri letti n.5

L’ARPA DI DAVITA
di Chaim Potok

Ilana Davita Chandal è una bimba di otto anni, figlia di due intellettuali, Michael, cristiano non credente originario del Maine, giornalista e scrittore, e Channieh, ebrea non credente di origini polacche.
La vicenda si svolge negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni trenta e la prima metà degli anni quaranta, periodo in cui l’America è da poco uscita dalla Grande Crisi del ’29, in Europa si affaccia la dittatura di Franco in Spagna, il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, quindi lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
I genitori di Davita sono due attivisti di sinistra, che combattono con le idee e con le azioni il capitalismo, nella speranza di creare una società più giusta.
“…..Le persone sono buone per natura Ilana, ma questa bontà è paralizzata da barriere sociali, politiche e religiose. Noi stiamo lottando per abbattere tali barriere. E allora assisterai alla nascita di una nuova luce per il genere umano. Accadrà presto Ilana, molto presto. Il capitalismo è morto. Puoi vedere il suo cadavere ovunque……Stiamo combattendo questa crudeltà per costruire un mondo migliore…..” [pag.109, Garzanti Editore]
Il bombardamento di Guernica, in cui muore il padre di Davita, presente sul posto come inviato di guerra del suo giornale, e il patto di non belligeranza tra Hitler e Stalin, segnano la caduta degli ideali di sinistra della famiglia Chandal.
Davita è una bimba molto intelligente e curiosa della vita, però, trascurata dai genitori, troppo impegnati nelle loro battaglie quotidiane contro il potere, così come, in realtà, è freddo il rapporto tra i coniugi Chandal, la cui forte unione sembra essere segnata dai comuni ideali politici.
Gli “amici” di Davita, sono un arpa eolia, souvenir donato al papà che a sua volta lo regala alla bimba, una fotografia, dono del nonno paterno ai nipoti, Jakob Daw, amico di gioventù della mamma, la zia Sarah, sorella del papà, e David Dinn, un bimbo ebreo.
L’arpa eolia, fissata sempre sulla porta di ingresso delle numerose case in cui la famiglia Chandal ha vissuto, è sinonimo della musica dolce, è il segno della vita, della novità, della speranza. Il suo suono, che si diffonde per casa ogni volta che si apre la porta di casa, porta con sé la possibilità di buone nuove, l’occasione di incontrare e conoscere persone, esperienze che possano influire positivamente sulla vita di Davita. L’arpa è nella fantasia di Davita, il nido di due uccelli, diversi tra loro, uno grigio e uno nero, che occorre custodire e tenere desti, perché rappresentano la vita che cresce.
La foto, mostra due stalloni che cavalcano lungo la spiaggia verso il mare: rappresenta la libertà, la voglia di correre, di non fermarsi mai. La possibilità di andare oltre. E l’immagine ricorre molto spesso nei sogni della bimba, sia per i contenuti della foto, l’oceano, la spiaggia, l’orizzonte, quanto per la fantasia di vedere il papà e il suo amico Jakob cavalcare gli stalloni.
Jakob Daw, è uno scrittore, che nel suo peregrinare per il mondo alla ricerca di un posto che lo accogliesse, soggiorna per un lungo periodo a casa della famiglia Chandal. E’ un uomo fuori dagli schemi, per il modo con cui si veste, per i contenuti dei suoi scritti, per i suoi ideali politici. E’ uno spirito libero, non omologabile alla moda del periodo. E Davita ne rimane affascinata, perché anche lei è una bimba libera, che fa della libertà intellettuale il suo punto forte.
La zia Sarah, cristiana credente, è per la famiglia Chandal, e per Ilana in particolare, un punto di riferimento. E’ sempre presente nei momenti più importanti della vita familiare e attraverso l’aiuto quotidiano, che presta in casa quando fa loro visita, rappresenta una opportunità di guardare in modo positivo alle vicende che accadono.
In una lettera alla cognata, subito dopo la morte del fratello Michael scrive: “….Ho amato mio fratello. Mi accorgo di non riuscire a credere alla sua morte. Diversamente dai miei genitori, non penso che la politica possa dividere una famiglia……Siamo una specie spregevole e maledetta e se non fosse per la grazia di Dio, la vita intera sarebbe un travaglio senza speranza……Ma Annie mia cara, ciò che tu chiami illusione, non è semplicemente il sogno di qualcun altro, che tu disapprovi?.....Se la fede in Dio è una mera illusione, allora perché non dovrebbe esserlo altrettanto la fede nell’uomo? Anne, non sono anche i tuoi sogni un’illusione?.....”
David Dinn è l’amico, successivamente il fratellastro, attraverso cui Ilana Davita scopre un interesse verso la religione ebraica, a cui si lega e si interessa con studi approfonditi. La sua passione verso l’ebraismo spinge la mamma, che da tempo non credeva più, a rifrequentare l’ambiente della sinagoga.
La religione è un filo conduttore del romanzo, il modo attraverso cui i personaggi affrontano le durezze della storia, non fuggendola ma comprendendola. Il senso religioso che caratterizza i protagonisti del libro non nasce dalla paura ma dal coraggio e dalla libertà con cui stanno al mondo.

martedì 23 marzo 2010

Cosa c'entra la bellezza col lavoro?

Cosa c’entra la bellezza con il lavoro? Sono due parole in antitesi o è possibile trovare un punto in comune? Si può fare qualcosa di bello attraverso il lavoro? Il lavoro porta al raggiungimento del bello? Può la bellezza essere un aiuto al lavoro?
La risposta a queste domande non è semplice, personalmente riesco solo ad abbozzarle, di sicuro ci sono persone che hanno una consapevolezza maggiore della mia e che sono in grado di dare risposte convincenti su questo argomento. Uno è don Julian Carròn, responsabile della Fraternità di Comunione e Liberazione, l’altro è Sua Santità Benedetto XVI.
Don Carròn, in un suo intervento all’assemblea generale della Compagnia delle Opere, tenutasi lo scorso dicembre ad Assago, ha cercato di spiegare cosa vuol dire che il lavoro di ognuno è un bene per tutti.
La tesi di don Carròn, che ha parlato di fronte a una vasta platea di imprenditori, professionisti, intellettuali, e gente comune è che viviamo in un mondo in cui domina l’individualismo, dove l’altro è visto come un ostacolo al raggiungimento della propria felicità. In una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. In questo ambiente in cui homo homini lupus l’unica via di salvezza è una compagnia di amici. La condizione perché l’uomo esca fuori dalla negatività dell’individualismo e diventi capace di sostenere l’ottimismo è una trama di rapporti che si riconoscono fondamentali per la propria felicità. Certo, ci sono dei rischi: per esempio, la tentazione di cadere sempre nell’individualismo è in agguato, oppure per opposto usare l’amicizia, ovvero anziché essere un sostegno all’io, diventa un progetto, un calcolo di successo, una forza egemonica contro altri basata sul potere. Invece, la convenienza della vita è la gratuità intesa come ricerca del bene, che diventa affezione, costruzione e capacità di accettare la correzione da altri di fronte alla caduta. Ma questo passo è possibile solo se si riconosce la presenza di Cristo come unica condizione per essere veramente liberi e superare l’individualismo. Quando la carità penetra negli interstizi dei nostri calcoli, dei nostri progetti allora il lavoro che facciamo diventa Bello.
In un periodo di crisi economica come quello che stiamo affrontando, dove tante aziende stanno chiudendo, troppe stanno riducendo con facilità il personale, molte ne stanno approfittando per liberarsi delle persone “poco in linea”, altre vengono vendute per assicurare alla famiglia proprietaria una rendita vitalizia, chi resiste è invece un eroe. Ci sono imprenditori che hanno grande attenzione per le persone con cui lavorano, hanno forte passione per il lavoro che fanno, amano il prodotto o servizio che realizzano, indipendentemente da cosa esso sia, investono capitale proprio, riducono i margini, non dividono i pochi utili, stringono i denti ma vanno avanti e non mollano.
Barcollano, ma non mollano!!
L’esperienza di alcuni imprenditori che conosco o di cui ho letto mi ricordano le vicende raccontate da Eugenio Corti ne “Il Cavallo Rosso” circa una famiglia di industriali brianzoli, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, di fronte alla crisi anziché chiudere, al contrario, investono e acquistano altri macchinari per rilanciare l’azienda e conservare il posto di lavoro dei dipendenti.
Ci sono volti di persone, che conosco direttamente, che mi dimostrano che è possibile fare qualcosa di bello attraverso il lavoro e che la bellezza di quello che fanno è un motore per continuare a lavorare.
Tutto questo attraverso e nonostante le circostanze quotidiane.

Anche Benedetto XVI spesso è intervenuto sul concetto di bellezza: un po’ di tempo fa in un incontro organizzato con gli artisti di tutto il mondo.
Evento non nuovo, visti i precedenti di Paolo VI del 7 maggio 1964 e di Giovanni Paolo II nel corso del Giubileo del 2000.
Del discorso di Benedetto XVI, mi hanno particolarmente colpito le seguenti citazioni:
- “…Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo….” [Enchiridion Vaticanum, 1 pag.305, Paolo VI]
Questa frase è stata citata quarantacinque anni fa da Paolo VI in occasione dell’incontro con gli artisti. Rispetto ad allora penso che l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla vita sia peggiorato. Apparentemente migliorato, perché ci si rifugia nel benessere, ma concretamente estraneo. L’uomo di oggi è, di fatto, privo di speranza e di fiducia. La fiducia è, per esempio, l’ultimo baluardo che sta cedendo per via della crisi economica.
E quindi, per ritornare alla tesi di Carron, l’uomo cade nell’individualismo.
Continuando nella lettura:
- “….Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza?........L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere….”
Citando, di seguito, Simone Weil: “….Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo, ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa”.

Ma il passaggio che più mi ha scosso, perché ha posto una domanda su di me, è stata la citazione del poeta polacco Cyprian Norwid, riportato nella Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II, che dice: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere”.

Quando ho letto questa frase ho provato un profondo senso di vertigine, perché contiene due verbi, entusiasmare e risorgere, che non fanno parte più del linguaggio comune. E’ difficile trovare uno che a lavoro provi entusiasmo. Al massimo soddisfazione, spesso legato a questioni economiche, talvolta piacere, ma mai entusiasmo. Cosa vuol dire risorgere? Lo immagino come un continuo sorgere, come il sole!
Ma risorgere da cosa?
Ci provo. Risorgere dal nichilismo, dal nulla, dalla superficialità, dal pessimismo in cui l’uomo tende a cadere.
Per questo è necessario che gli uomini lavorino, perché possano risorgere.
Personalmente, a lavoro, difficilmente provo entusiasmo, mi fermo spesso alla soddisfazione personale, al raggiungimento degli obiettivi, al buon mantenimento dei rapporti interpersonali……
E invece, la frase di Norwid dice qualcosa di grande, che mi ha colpito, perché esprime una domanda, il desiderio di essere inondati dalla bellezza e diventare più se stessi attraverso il lavoro.

lunedì 8 marzo 2010

Le avventure del dott. Sapuppo n.7

La festa di matrimonio di Calogero e Nunzia si trasformò ben presto in una odissea, poiché a causa dei molti invitati, il servizio al tavolo non fu in grado di fornire un livello accettabile. Tutto era lento e poco armonioso. C’era chi mangiava ancora il primo quando altri cominciavano il secondo, se chiedevi l’acqua facevi prima ad andarla a prendere a piedi alla fonte.
Molti, dopo tre ore di ricevimento e ancora alla seconda portata, sbuffavano e si alzavano dal tavolo, creando ancora più confusione. Si rischiò la rissa quando il metre col megafono chiede cortesemente di stare ai tavoli per permettere ai camerieri di servire. Se l’avessero potuto brasare l’avrebbero fatto senza problemi.
I fumatori tiravano una sigaretta dopo l’altra, i malati di telefonia chiamavano a tutto il mondo, i bimbi con il game boy facevano tornei singoli e a squadre, le donne spettegolavano di tutto e di tutti, i semi cominciarono a germogliare e il sole tramontò all’orizzonte.
In tutto questo turbinio, Agatino e Paola erano un’isola felice.
Parlavano e parlavano!!
“Agatino”, chiese Paola, “andiamo fuori a fumarci una sigaretta?”
“Certamente”, rispose Agatino, “ma non sapevo che tu fumassi!”
“In realtà non fumo, talvolta per rompere la routine, ma ricordo bene che tu ami i Toscani”
“Già, come fai a saperlo?”, rispose Agatino
“Lo ricordo da quando eri studente universitario e io appena liceale, che parlavi e argomentavi coi tuoi amici tenendo il sigaro in mano e tiravi di tanto in tanto….mi affascinavi col sigaro”, disse con dolcezza Paola.
Patapàm, caro dott. Sapuppo!!!
“Non posso crederci ti ricordi di questo particolare?”
“Per te sarà solo un particolare, per me era un aspetto di una personalità interessante!!!”
Patapàm, caro dottore!!
Agatino era completamente imparpagliato. Era in serie difficoltà, non sapeva come controbattere, non voleva essere sdolcinato ma neanche rigido e interrompere quell’idillio.
Forse per la prima volta dopo tanti anni, forse per la prima volta in assoluto, una donna con lui teneva il bastone del comando, e lui doveva inseguire.
Di solito Agatino usava i suoi schemi logici: sondava con alcune battute la personalità della donna, quindi, guidava il dialogo su argomenti che lui dettava, poi veniva quel che veniva ma tutto sotto il suo pieno controllo.
Stavolta no, lui era il topo e Paola il gatto.
Giunti ormai sulla soglia della porta, Agatino propose a Paola un Toscanello tostato al caffè, una vera delizia dopo pranzo. Lei accettò di buon grado, consapevole però che il sigaro è ben diverso dalla sigaretta.
Camminarono a lungo nel cortile del palazzo, con la frescura invernale che lambiva i loro volti, e spesso Agatino era costretto a dare qualche colpetto sulle spalle di Paola, che inesperiente con il sigaro rischiava di strozzarsi.
Ridevano, ridevano tanto, ridevano di gusto, ridevano di pancia, ridevano che i polmoni quasi scoppiavano dalla gioia.
E la loro gioia non era dettata dai postumi del vino bevuto. Certo, aiutava, il vino rendeva un po’ più fluido il parlare, ma in realtà cominciava delinearsi qualcos’altro.
Ritornarono nella sala che la mamma di Agatino aveva sguinzagliato tutti i parenti perché non ritrovava più il suo piccolo figliolo.
Piccolo figliolo a quasi quarantenni? Cose da pazzi!
La trovarono all’entrata, preoccupata, con le lacrime agli occhi e il viso teso.
“Figghiu miu, unni t’innisti?”
“Mamà, ‘na passiata m’aiu fattu! Pirchì?”
“Comu pirchì? disanuratu, m’ha fattu preoccupari. Cu u sapi cchi t’avia succidutu!”
“Mamà, era accà, ‘ndo cortile do palazzu, unni cridi c’aiu statu!”
“Figghiu miu, che tiempi ‘ca currunu, u sai quanti cosi puonu succediri?”
“Comunque, uora turnai. Ciao!”
“E’ chistu u ringraziamiento dopu tanta preoccupazioni?”
“Mamà, buon proseguimento, haiu cchi fari!!”
“Stu carusu nun ragiuna cchiù. Paola, vidi tu, se armenu oggi u sa fari ragiunari!”
“Va bene zia, stai tranquilla e continua serenamente la festa. Te lo porto dopo.”
Patapàm, caro Agatino!!
“…te lo porto dopo”….hai capito Agatino come gira la baracca?
Ma siamo ancora al primo giro di valzer!!
Agatino e Paola, ritornano al loro tavolo, che nel frattempo si era ricomposto poiché stavano servendo il dessert di dolci.
Gli sposi avevano ordinato i dolci alla “Zia Peppina”, notissima dolceria di Centuripe, famosa in tutta la Sicilia orientale e non solo. E tale fama anche quel giorno si fece rispettare. Il cannolicchio di ricotta deliziava il palato, i mostaccioli di marsala liberavano i sensi, i biscotti di pinoli provocavano libidine alle papille gustative, il bucellato alla mandorla era la giusta chiusura di un dolce concerto. Il tutto accompagnato da un ottimo Moscato di Noto, che lubrificava l’esofago e ossigenava adeguatamente la bocca.
Finalmente di giunse al taglio della torta. Come ci si poteva aspettare, la forma strana della torta e alcuni particolari della guarnizione della stessa generarono nel locale un bisbiglio accompagnato da sorrisi e battute a doppio senso che gli sposi assecondarono con ammiccamenti vari. La stessa sposa dimostrò con mimica squalificabile che la forma della torta, così come fu presentata, era stata voluta e non casuale, a significare che gli attributi maschili dello sposo erano di notevole pregio. E che lei da quella sera stessa ne avrebbe fatto uso e abuso!!
Per fortuna il siparietto di basso profilo teatrale si concluse velocemente, e i cinque falli di pasta frolla furono affettati e impiattati, con il disgusto di qualche invitato che si rifiutò di assaggiare la torta.
Tra queste ci fu Paola, sconvolta per la parte recitata dalla cugina, mentre il suo vicino di posto, Agatino, se la gustò tutta e si mangiò pure la fetta di Paola.
Quando cominciarono i canti e i balli tipici siciliani, Agatino aveva raggiunto il colmo della sopportazione fisica e psicologica, e decise di andare via, accompagnato dai genitori che già da tempo vegetavano su un divanetto della sala.
Il ritorno a casa fu lieto, leggero, tranquillo, felice, potremmo dire che Agatino era “amminchiuluto”!
Anche Paola andò via dal ricevimento qualche minuto dopo Agatino, anche lei insieme ai genitori e al fratello minore. Pure lei tornò a casa lieta e contenta, e non di certo per la festa.
Quel giorno era accaduto qualcosa di meraviglioso.
Nei due giorni successivi, Agatino incontrò Paola sia a pranzo che a cena, trascorsero un pomeriggio per le vie addobbate di Catania, ed ebbero modo di fare tappa anche al Rifugio Sapienza sull’Etna, meta obbligata per Agatino tutte le volte che tornava a casa, e punto di partenza di molte escursioni giovanili.
Agatino, lo conosciamo, è un punzonatore certificato, il suo testosterone non segue le normali leggi dell’anatomia umana. Il suo ormone, di fronte alla presenza femminile, prende vigore e detta legge al corpo del dott. Sapuppo.
Anche stavolta fu così, lo tsunami ormonale si verificò puntuale, sconvolse il corpo e la mente di Agatino, ma stavolta accadde qualcosa!
Non che non volesse metterle le mani addosso, anzi, di tecniche infallibili da escogitare per conquistare il bottino ne conosceva a iosa, ma era come se i comandi non arrivassero agli arti. Era come se qualcuno avesse tranciato i nervi per cui i segnali non giungevano a destinazione. Si era frapposto qualche neurone “cagacazzo” che voleva giocare coi suoi sensi. Di solito Agatino, in questi casi, agiva di istinto, era un meccanismo proceduralizzato e ben oleato. Stavolta invece, ogni istante era pensato.
Pensato? Agatino, cominci a pensare anche in questi frangenti?
Accadde che la ragione si impose sull’istinto. Certo, fu necessario una lotta, se le diedero di santa ragione, sembrava che prevalesse l’istinto, ma alla fine la ragione, anzi, il cuore prevalse su tutto.
Già, il cuore!
Quella pompa meccanica che secondo Agatino era priva di contenuto umano nel maschio, mentre, era infarcito di sentimentalismo nelle donne adesso cominciava a mostrare il suo vero volto, veniva allo scoperto.
Ed era tutto un’altra cosa. Le circostanze erano simili a tante altre vissute da Agatino: lui accanto a una donna, una bella donna sensuale in un luogo appartato di fronte a un orizzonte mozzafiato. Eppure i fatti si svolsero in maniera completamente diversa dal solito copione.
Agatino era incantato dagli occhi di Paola, dal suo viso, dal suo collo, dal suo seno, dalle sue gambe, dal suo corpo seduto accanto a lui mentre miravano, dai crateri Silvestri, il panorama della piana di Catania. Era lì con tutto se stesso, con il suo fisico maschio e i suoi sensi, a gustarsi la giovane ragazza.
Agatino in pochi attimi giunse a una conclusione: quella seduta accanto a lui non era una femmina, era una donna, anzi la sua donna!!
E pertanto, come una cosa preziosa, bisognava proteggerla e rispettarla.
Non poteva di sicuro dichiararsi, a quarantenni certe cose non si fanno, si capiscono reciprocamente, poi magari lei chissà cosa pensava. Ma gli era chiaro che da quel giorno la sua vita non sarebbe stata più la stessa. Non avrebbe potuto guardare più una donna se non come guardava ora Paola, non avrebbe più potuto vivere un istante senza fare memoria della bellezza di quegli istanti che stava vivendo.
E provava dolore, molto dolore, all’idea che all’indomani sarebbe dovuto ritornare a Milano, lontano dalla sua Paola. E se tutto finiva in quegli istanti? E se per lei, quei momenti non avevano lo stesso significato che avevano per lui?
Il dubbio e la paura provarono a oscurare la bellezza di quei momenti, ma evidentemente erano destinati a fallire.
“Agatino”, chiese Paola, “domani parti per Milano e ritornerai alla tua vita! Ti ricorderai di questi giorni?”
“Certo, non posso cancellare un istante!”, rispose Agatino.
“Sono molto triste all’idea, scusami per la confidenza, ma in questi anni pensavo di averti dimenticato e invece no!”, ribattè un po’ commossa Paola
“ Che intendi dire, Paola?” chiese Agatino un po’ imparpagliato
Agatino, ma cchi minchia dici? Chiffà cugghiunii!!
Per te che sei fisico la matematica dovrebbe essere a portata di mano! Ti sta dicendo che uno più uno fa due…….!
“ Sappi che io ti voglio bene e desidero tanto non perderti!”
Come se gli avessero dato uno spintone, per l’emozione, Agatino attummò all’indietro a gambe all’aria, bianco come morto!!Non fu sufficiente che Biancaneve baciasse il suo Principe Azzurro perché questi si svegliasse, fu necessario chiamare il 118 per farlo rinvenire!!!