Sabato
scorso ho accompagnato i miei figli in parrocchia per le prove del
coro, dove ormai da due anni cantano tutti e tre. Di solito li porta
la mamma, che nei quaranta minuti di attesa fa una sosta in chiesa a
pregare o si ferma con qualche conoscente al bar dell'oratorio.
Stavolta,
essendo mia moglie andata a teatro con la nostra secondogenita, è
toccato a me.
Siamo
arrivati leggermente in ritardo e quel giorno le prove sarebbero
finite un po' prima per via di un impegno del direttore del
coro...cosa fare in quei trenta minuti?
Non
c'era tempo per andare a casa, fare qualcosa e tornare, non sarei
riuscito a portare dei libri in biblioteca e fermarmi a parlare, non
avevo voglia di fare due passi a piedi perchè stanco dalla lunga
corsa mattutina. Me ne sono rimasto in oratorio.
Nel
campetto dell'oratorio, un magnifico campo a sette, da qualche anno
rinnovato con tanto di prato sintetico, si giocava una partita di
ragazzini della leva 2002. Il campo era stato ridotto nelle
dimensioni e le porte erano quelle piccole trasportabili, ma per il
resto tutto era equivalente a una partita seniores: le divise, la
panchina con le riserve, l'occorrente per il soccorso, le bevande per
idratare i calciatori, l'arbitro, un adulto, in divisa impeccabile.
Il
pubblico era molto folto. Naturalmente erano presenti i genitori, ma
non solo, anche molti nonni e qualche amico di papà o mamma.
Il
tifo era molto caloroso, per fortuna contenuto nel linguaggio, chissà
forse perchè eravamo in un oratorio, ma non per questo meno
chiassoso. Fischietti, trombette e striscioni attorniavano il campo.
La
partita è stata molto avvincente, soprattutto per i protagonisti. La
classica partita di ragazzini, calciatori in erba: tutti dietro la
palla, tutti in attacco e tutti in difesa. Un continuo scalciare,
spingersi, correre in avanti e indietro come un moto perpetuo. Tutto
questo a dispetto delle indicazioni date dagli allenatori che,
chiamando continuamente per nome i loro singoli giocatori indicavano
a ognuno la posizione in cui stare e l'avversario da marcare.
“Marco,
devi stare lì, hai capito?, lì e non là”
“Luca,
devi marcare il numero cinque, non devi andare in giro a fare vento,
hai capito?”
Ad
ogni domanda, la risposta era immancabilmente “si ho capito”.
Giusto
il tempo della risposta perchè tutto riprendeva come prima.
E
gli allenatori si sgolavano...come un padre che richiama il figlio a
una responsabilità, a un ruolo che lui, adulto, vede meglio.
Ho
trascorso il tempo a disposizione guardando la fine di quella partita
e l'inizio della successiva, della leva 2000, ma avevo la mente
altrove.
I
miei ricordi sono andati a quando io alla loro età giocavo a pallone
in oratorio.
In
realtà, dove sono cresciuto io non esisteva la cultura
dell'oratorio, non era concepito come un luogo di ritrovo dei
giovani. In parrocchia ci si andava per la messa, per pregare, per il
catechismo e qualche incontro. A otto, nove,...dodici anni non ci si
vedeva, la domenica, in oratorio per trascorrere il pomeriggio. Per
lo più si trascorreva il tempo giocando per strada a pallone o a
casa da qualcuno.
Ma,
chi come me ha fatto il chierichetto per tanti anni, andare in
parrocchia significava, il sabato pomeriggio, partecipare
all'incontro e poi scatenarsi nel campetto, in terra o in mattonelle,
a giocare a pallone. Ed erano pallonate che volavano a destra e a
manca, spesso accompagnati da qualche calcio, nei casi estremi da
qualche spintone.
Nel
mio caso, la parrocchia in cui ho fatto il chierichetto era la Chiesa
Madre del paese dei miei nonni, nel centro dell'abitato. La
parrocchia non disponeva di un campo da calcio ma di un grande
cortile di forma non definibile, diciamo pressapoco quadrangolare,
con alte mura, per fortuna senza finestre, che erano il retro di
abitazioni adiacenti i locali parrocchiali.
Più
che un cortile era un catino: infatti l'eco e il rimbombo per le
grida e le pallonate era davvero assordante.
Ma
questo non era un ostacolo per noi futuri Maradona, piuttosto un paio
d'ore di penitenza per coloro che abitavano a ridosso del cortile che
oltre alle urla sentivano rimbalzare sui loro muri le pallonate che
noi non disdegnavamo di calciare.
Il
prete, ce lo diceva sempre, “non tirate forte perchè potreste
disturbare i vicini”.
Lo
sapevamo di disturbare ma potevamo permetterci di tirare piano se
c'era un evidente possibilità di fare gol calciando forte?
Mi
è capitato di incontrare tante volte qualche “vicino” ed essere
rimbrottato “tu sei uno di quelli che il sabato fa il diavolo a
quattro col pallone, vero?” ed io rosso come un pomodoro
confermavo, ma subito dopo “tranquillo, ho avuto anch'io dei
bambini, e poi meglio tirare pallonate al nostro muro che andare in
giro per strada a scrivere sui muri o suonare ai campanelli e poi
scappare”....cosa, quest'ultima, che facevamo comunque dopo!!
Ricordo
bene che le parrocchie organizzavano partite di calcio tra
chierichetti, in campo neutro, per l'esattezza il campo di una
piccola oasi della gioventù, poco fuori paese e facilmente
raggiungibile in bici, gestita da suore. Un campo in terra dove le
due porte erano definite da due coppie di robusti alberi piantati
alla stessa distanza. Non ho mai saputo se fosse stato voluto da
qualcuno, chissà quando, o fosse stato un caso. Sta di fatto che le
porte avevano la stessa dimensione ed erano una di fronte all'altra.
L'altezza della porta, invece, era definita dalla lunghezza delle
braccia del portiere, a mani in alto, per cui se una squadra metteva
in porta un ragazzo basso la porta era bassa, se metteva uno alto la
traversa si alzava. E poiché spesso il ruolo del portiere non era
fisso, ma a rotazione, perchè a tutti piaceva correre dietro la
palla e a nessuno stare fermo e buttarsi a terra per parare un
pallone, si capisce bene che l'altezza della porta era una variabile
in continuo mutamento. Ricordo bene che a dodici anni, nella mia
squadra c'ero io che ero piccoletto e un mio amico coetaneo, Paolo,
che era alto quasi un metro e novanta: se alzavo il braccio ero
comunque più basso della sua testa!!
Inimmaginabili
le dispute che nascevano tutte le volte che qualcuno tirava in porta
al di sopra della testa.
Era
gol o era alto sopra la traversa? Erano discussioni, erano litigi,
talvolta schiaffoni.
Altro
che chierichetti. O meglio, nonostante fossimo chierichetti.
Nei
casi estremi interveniva il prete che ci toglieva il pallone e ci
rimandava subito a casa. La punizione era rincarata da un divieto di
servire messa per una settimana e a condizione che ci confessassimo
comunque.
Ma
il più delle volte, le partite, qualunque esse fossero, finivano
sempre in maniera cordiale, certo, con il vittorioso che si prendeva
gioco dello sconfitto, il vinto irato e carico di vendetta, ma
comunque con un arrivederci alla rivincita.
Questo
ricordo mi è venuto in mente perchè sabato, alla fine della partita
c'è stata una squadra vincente e una sconfitta e i vincitori hanno
deriso i vinti, e gli sconfitti hanno giurato di rifarsi nel girone
di ritorno. Il tutto, conclusosi con una sincera stretta di mano....e
qualche pianto.
Per
la cronaca, gli ospiti hanno vinto 5-2.