mercoledì 21 aprile 2010

Una giornata con mio figlio









In occasione delle festività pasquali, abbiamo deciso di trascorrere qualche giorno di riposo lontano dai rumori e dallo smog della città.
Così ci siamo rifugiati nel nostro piccolo paese di montagna dove la serenità, il silenzio, la bellezza dei monti circostanti permettono di riacquistare benessere fisico e spirituale.
Siamo arrivati che da poco era tramontato il sole, ma il riverbero della luce sulle cime dei monti rendeva l’ambiente molto suggestivo: peccato che qualche ora prima una valanga aveva travolto e ucciso due sciatori che facevano fuori pista.
Non avevamo progetti definiti a priori, l’obiettivo era solo riposarsi e consentire ai nostri figli, se possibile, di sciare. Sabato mattina, riposati, con mio figlio sono andato a ritirare i miei e i suoi sci, quindi, prima siamo ritornati a casa per cambiarci, poi, con il bus navetta siamo arrivati al campo scuola dove abbiamo sciato per un paio d’ore.
La stessa cosa abbiamo fatto anche lunedì, mentre domenica di Pasqua una fitta nevicata, più natalizia che pasquale, ci ha invitato al tepore di casa.
Il campo scuola è una pista non molto lunga ma abbastanza ripida usata dalla scuola sciistica per gli allievi che già sanno governare gli sci e si muovono con destrezza. Personalmente dopo la prima ora di sabato mi ero già stufato, ma sono rimasto e ritornato per mio figlio, il quale ha tratto benefici dalle ore trascorse sul campetto.
Lunedì sera sapevo che il giorno dopo era previsto bel tempo, ideale per una giornata da trascorrere in quota. “Sarebbe bello”, pensavo, “portare mio figlio”, ma io non sono uno sciatore esperto e l’ultima esperienza passata al Madriccio durante le vacanze natalizie, da solo, è stata piuttosto drammatica.
Infatti, partito coi buoni propositi, per una banale caduta causata da uno sciatore assai spavaldo che ho evitato all’ultimo secondo, ho come “dimenticato” tutto quanto avevo imparato nei quattro anni passati, un blackout della mente che mi ha tenuto inchiodato sugli sci a metà pista. Allora, fui capace solo di ritornare, in qualche modo, all’attacco della funivia a monte, staccarmi gli sci e ritornare a valle.
Questa esperienza faceva da tappo al desiderio di salire con mio figlio al Madriccio.
Martedì mattina, di buona lena, mi sono alzato e affacciato al balcone. Cielo terso, temperatura fresca, visibilità ottima. Le condizioni ideali per sciare in quota.
Metto da parte questo desiderio e faccio colazione con la famiglia.
Indossiamo la tuta da sci e ci avviamo nella skiraum per mettere gli scarponi.
Di certo, quel giorno c’erano due cose: al mattino mia figlia avrebbe ricevuto la seconda lezione di sci e di pomeriggio avremmo dovuto fare ritorno in città. Tutto il resto non era programmato.
Accenno il desiderio che ho a mia moglie, che mi suggerisce di tentare di salire. Titubante le dico che le farò sapere.
Salito sul bus navetta, con mio figlio, comincio a guardarmi intorno. Un flash e decido: si sale. Comunico la mia intenzione a mio figlio, che dapprima tentenna, poi di fronte alla possibilità di salire sulla funivia si esalta. Arriviamo alla stazione della funivia, pago i biglietti e saliamo.
Mio figlio è contentissimo, il viaggio di trasferimento è l’occasione per fare capire a tutti i passeggeri quanto lui fosse gioioso e felice di quanto stesse vivendo. Guarda, indica, domanda!
Arrivati alla stazione di monte ci sono tante persone, tra questi molti bambini.
Mio figlio mi dice: “Guarda quanti bambini, papà! Mi sa che ce la posso fare”.
“Certo”, rispondo “se ci sono i bambini è perché anche loro in qualche modo riescono a fare le piste”. Pensavo così anche a Natale, prima che mi bloccassi come un broccolo. Poi, in verità, i bambini scendevano mentre io ero impalato a tremare come una foglia!!!
Con mio figlio possiamo scegliere molti opzioni, ci sono parecchie piste, le più lunghe partono da quota 3000m. Decidiamo, naturalmente, per la pista più semplice.
Ci mettiamo in fila e saliamo sulla seggiovia a quattro posti. Mio figlio è incontenibile dalla gioia. Prima la funivia, ora, la seggiovia! Durante il tragitto, dall’alto, gli indico i punti più delicati, quelli in cui bisogna fare maggiore attenzione e quelli in cui occorre spingere mettendosi a uovo. Tutto sembra chiaro.
Giunti all’attacco della pista, ci sistemiamo i guanti, gli occhiali, il casco, le racchette e si parte. Io davanti e mio figlio dietro. Superiamo il primo muro, poi un piano percorso a uovo, quindi giungiamo a un secondo muro. Mentre io lo percorro con le dovute precauzioni, curvando prima a destra e poi a sinistra, mio figlio pensa bene di superare il muro a sci uniti, a uovo, e più veloce di un Freccia Rossa. In un baleno ha superato il muro ed è a buon punto del tratto pianeggiante.
“Piano, pistola!”, grido.
Mi avrà sentito tutta la valle, penso.
“Devi curvare non andare sparato come un missile”, continuo.
Comunque, lo raggiungo e sorrisogli proseguiamo insieme fino all’arrivo. Qui ci viene incontro il suo maestro di sci, col quale ha stretto un buon rapporto (grande dono di mio figlio è farsi volere bene da tutti!), il quale sorridendogli, ma con il piglio del maestro gli dice: “Emanuele t’ho visto superare il muro. L’importante non è correre ma curvare e controllare gli sci. Va bene?”
“Va bene, grazie Rudy”, risponde mio figlio.
Abbiamo fatto sali e scendi cinque volte per la pista, ogni volta con maggiore piacere e soddisfazione.
Alla fine dopo due ore, stanchi e soddisfatti, decidiamo di staccare gli sci dai piedi e andare a mangiare.
Eravamo davvero esausti ma contenti.
Siamo entrati al rifugio, abbiamo preso un tavolo, quindi le ordinazioni: l’ampia vetrata rivolta verso l’Ortles e il Gran Zebrù ci ha permesso di pranzare, chiacchierando e goderci lo spettacolo delle montagne.
Ma lo spettacolo era accanto a me, ha otto anni, ed è una bomba di curiosità e di stupore. Domanda, domanda, domanda, in maniera inesauribile!!. E guarda, guarda, guarda!!. Osserva i monti, chiede dei serracchi, chiede dei crepacci, conta le cime, guarda l’orizzonte.
“Papà, ma quando sali sull’Ortles?”, mi domanda.
“Appena possibile”, rispondo superficialmente.
Quella cima è davvero interessante e prima o poi ci arriverò.
Concluso il pranzo usciamo fuori: la temperatura è calda, si sta bene, anche in maniche corte.
Noi ci accontentiamo di stare solo con il pile.
Per una buona mezz’ora rimaniamo distesi su una panca come due lucertole al sole. Non siamo gli unici, ma parte di un popolo di sciatori che si godono la giornata di grazia.
Mentre mio figlio continua a guardare e a domandare, io sogno ad occhi aperti il percorso da fare per raggiungere la vetta della montagna.
Alle 15, a malincuore, decidiamo di scendere a valle: abbiamo il resto della famiglia che ci attende e poi prima di sera occorre ritornare in città.
A casa, facciamo le pulizie, sistemiamo le valigie, carichiamo la macchina e ripartiamo per Milano.
Il clima, in macchina, è sereno e rilassato: la giornata trascorsa sulla neve ci ha stancato ma anche rilassato e ha creato buon umore.
Così, il viaggio di ritorno trascorre velocemente.
La sera, ormai a casa, con mia moglie ci siamo raccontati quanto avevamo vissuto oggi: ho detto che quanto trascorso al Madriccio con Emanuele è stata una grazia enorme. E’ stato davvero bello.
Spesso, durante la settimana passo poco tempo con i miei figli. Il weekend, a volte, non è sufficiente a soddisfare le loro richieste.
Così una breve vacanza si può trasformare in una grande opportunità: quella trascorsa, in particolare martedì con mio figlio, è stato un regalo davvero gradito e consumato fino in fondo.

domenica 18 aprile 2010

Spingendo...la notte più in là

Quando sentii parlare per la prima volta del libro “Spingendo la notte più in là”, scritto da Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso la mattina del 17 maggio 1972 a Milano da esponenti di Lotta Continua, rimasi incuriosito dalla recensione e decisi di acquistarlo per leggerlo.
Il mio intento era di trovare elementi più certi che mi spiegassero come si fosse giunti a tale omicidio, evento che anticipa di poco gli “anni di piombo”.
Purtroppo su questo fatto, come di molti altri legati al Terrorismo, non c’è mai stata piena chiarezza…e chissà forse non ce ne sarà mai.
Il libro fa sì luce sui fatti di cronaca ma sono un corollario alla storia. Il libro è la testimonianza personale di un uomo che è rimasto coinvolto in questa vicenda sin dalla più tenera età, segnato a vita da questo evento drammatico. E’ commovente il passo in cui Mario Calabresi ricorda l’ultima domenica trascorsa con il padre, prima di essere ucciso, a vedere la sfilata degli alpini.
Dopo l’assassinio, la vita è trascorsa, spesso, in mezzo tra quelli che esaltavano la figura del padre, considerato un uomo saggio e perbene, e quelli che invece lo diffamavano ingiustamente perché ritenuto l’autore della morte dell’anarchico Pinelli.
Chi, come la famiglia Calabresi, è rimasta vittima del terrorismo, è spesso caduta in un baratro, segnata dall’oblio, dalla disattenzione, dal dolore, dall’odio, da cui non è più riuscita a rialzarsi, un evento tragico senza ritorno in cui sprofondare per sempre. Molti bambini, adolescenti, diventati orfani per l’uccisione del papà hanno avuto la vita, la quotidianità distrutta, i desideri, le passioni annientate per ciò che era stato brutalmente strappato in nome dell’ideologia.
Per altre famiglie, invece, la circostanza drammatica ha segnato l’inizio di una nuova esistenza, di una propria identità, di una nuova voglia di vivere, una lotta senza fine perché fosse rispettata la memoria senza farsi inghiottire dai rimorsi.
Quest’ultima, è stata la strada intrapresa dalla famiglia Calabresi all’indomani dell’omicidio del commissario.
Protagonista di questa rinascita è la madre Gemma, vedova del commissario: un nome che senza volerlo porta con sé un forte significato di speranza. La madre è una figura bella, positiva, descritta con un grande desiderio di felicità, capace di non farsi schiacciare dal dramma della morte violenta del marito, certa di saper affrontare la vita e educare i figli con uno sguardo positivo, carico di amore e colmo di gioia, seppure in circostanze dolorose e faticose.
E’ interessante quando Mario Calabresi, di fronte alla possibilità di andare a lavorare alla Repubblica, quotidiano in cui scrive Adriano Sofri (leader di Lotta Continua), si confronta con la madre esprimendo chiaramente il desiderio di rifiutare tale posto.
Così è descritto, nel libro, il dialogo:
“…Lei mi stupì ancora una volta per la sua freschezza e linearità e con calma mi fece una serie di domande: E’ un buon posto? Ti piace? Pensi che ti divertiresti? E’ un avanzamento? Ci sono persone da cui puoi imparare?. Risposi sempre si, ma con prudenza. Allora lei ne aggiunse un’altra, quella definitiva: Se Sofri non pubblicasse lì, avresti dei dubbi?. No, andrei quasi certamente le replicai. Lei sorrise e disse: Allora vai, non ascoltare nessuno, stai tranquillo: conoscevo tuo padre meglio di chiunque altro e sono certa che ti direbbe la stessa cosa. Amava le sfide, confrontarsi, mescolarsi, nella sua testa non esistevano due Italie ma una sola. Poi mi guardò, io ero ancora perplesso, allora lei aggiunse quello che forse le stava più a cuore: Mario, non permettere che altri decidano ancora il tuo destino, lo hanno già fatto quando eri bambino. Questa volta decidi tu….

(da “Spingendo la notte più in là”, Ed. Mondadori, pag. 126)
La domanda che mi sono posto allora è stata: cosa muove la Sig.ra Gemma Calabresi ad avere uno sguardo positivo sulla vita nonostante il dolore che ha vissuto? Cosa sostiene la sua certezza?
Perché non è caduta, come altre famiglie vittime del terrorismo, nella spirale dell’odio e della vendetta? Come fa a dire al figlio di accettare di lavorare laddove scrive colui che è considerato uno dei mandanti dell’omicidio del padre?
La risposta l’ho trovata, di recente, in una intervista che la Sig.ra Gemma Calabresi ha rilasciato a Paola Bergamini e riportata di recente su Tracce, una rivista cattolica mensile. Il titolo dell’intervista sintetizza l’esperienza vissuta dalla signora Calabresi: “Così Dio ha abbracciato la mia vita”. L’educazione cattolica trasmessa dalla famiglia originaria e l’incontro con don Luigi Giussani, all’età di vent’anni, sono due punti di riferimento nella sua vita, consapevole che Dio è presente sempre al suo fianco e che il Suo abbraccio la stringe in ogni istante. Solo con questa certezza, nello strazio del dolore di quegli istanti, all’indomani dell’assassinio del marito ha potuto chiedere di pregare per la famiglia dell’assassino.


"…Il Signore mi ha abbracciato dandomi il dono della fede. Il dolore e la difficoltà non sono stati tolti, ma riempiti di significato….Ciò che il Signore mi aveva donato era da “rendere” come testimonianza. Era la sola cosa che mi chiedeva….." (Tracce, Marzo 2010, pag. 29)
Riporto un passo dell’intervista che m’ha particolarmente colpito.
"... A proposito di giovani. Il dono della fede quanto ha inciso nell’educazione dei suoi figli?
Prima di tutto ho bandito il rancore. Alzarsi al mattino con la rabbia dentro significa riuccidere tutti i giorni tuo marito. Questa sarebbe la tragedia più grande. L’odio non ti fa vedere le cose belle della vita: tuo figlio che dice una parola, un bel panorama, l’amicizia di una persona. Volevo essere felice. Questo era ancora possibile; altrimenti perché il Signore mi avrebbe fatto quel dono? Solo per questo sono riuscita a innamorarmi di nuovo, a rifarmi una vita. Senza dimenticare nulla. Io volevo vivere. Ha voluto dire educarli nella gioia di vivere, nello scoprire le cose belle del mondo…..Ha voluto dire chiamare le cose con il loro nome: il bene è bene, il male è male…..Ma io sono sicura che dare ai nostri figli input su ciò in cui crediamo e che desideriamo è fondamentale. E ha sempre un ritorno.
Un esempio?
…Loro vogliono da me quello che ho sempre dato e detto: la fede, la forza, la speranza. Vede, nonostante tutto penso che Dio mi ha voluto molto bene. Se ripenso alla mia vita: la mia famiglia, l’incontro con don Giussani, mio marito i miei figli…Io sono stata una donna fortunata. Una volta l’ho detto a mia madre. E lei mi ha risposto: “Quello che il Signore ha dato a te lo dà a tutti. Ma quando Lui volge lo sguardo bisogna essere pronti a rispondere, a lasciarsi abbracciare
”.

(Intervista integrale su Tracce, mese di Marzo, pag.26)